“In Italia, così come nelle democrazie in genere, l’istituto referendario non ha mai goduto di buona fama né tra la maggioranza dei politici e dei partiti né tra la maggioranza degli accademici” (ULERI 1994: 422) e oggi i più ritengono che si tratti di una pratica inutile, che pone il cittadino di fronte a quesiti su cui non ha competenza e che si presta a strumentalizzazioni demagogiche. Probabilmente, nel nostro paese il r. non sarebbe diventato una realtà se non ci fosse stato sul tappeto il dibattito sulla legge riguardante il divorzio, avviato dal ministro Fortuna nel 1965. Allorché, nel 1970, apparve chiaro che la legge sul divorzio sarebbe stata approvata, si pensò che, se si fosse consultato il popolo, questo l’avrebbe abrogata. Fu con questo spirito che il governo democristiano si affrettò a varare la legge n. 352 di attuazione del r. (25 maggio 1970). Intanto, il primo dicembre dello stesso anno, passava la legge n. 898 sul divorzio. A giugno dell’anno seguente, i movimenti cattolici raccoglievano oltre un milione e trecentomila firme e così il r. abrogativo della legge poteva svolgersi. Era il maggio del 1974. L’affluenza degli elettori fu altissima (l’87,7%) e il 59,3% disse «No» all’abrogazione della legge.
Da allora si sono svolte numerose consultazioni referendarie (1981, 1985, 1987, 1989, 1990, 1991, 1993, 1995, 1997, 1999, 2001, 2003 e 2005), non senza disappunto da parte di molti governanti, i quali hanno cercato di porvi un freno, sostenuti in ciò dalla Corte Costituzionale, che ha negato l’ammissibilità ad un gran numero di richieste popolari. Già alla fine degli anni Settanta, i radicali parlavano di «Corte Beretta» perché vedevano i “giudici costituzionali come plotone d’esecuzione dei referendum” (CHIMENTI 1999: 65). Sorprendentemente però, il più deciso appoggio antireferendario proviene dal popolo stesso che, in teoria, dovrebbe avere il massimo interesse a difendere il suo diritto. Sarà per noncuranza nei confronti dei temi trattati, sarà per semplice pigrizia o per sfiducia o per altro, fatto sta che, col passare degli anni, l’affluenza alle urne è calata e, dopo il 1995, la partecipazione si è attestata intorno al 30-32%, quindi ben al di sotto del quorum.
6.1. L’attuale tendenza: referendum nulli
Tra i r. nulli va ricordato quello del 1999, che registrò una partecipazione del 49,6% degli aventi il diritto, un soffio al di sotto del quorum. Insomma, oltre venti milioni di cittadini espressero la stessa opinione, ma la loro volontà non ebbe riscontro. Il penultimo r., che riguardava l’art. 18 dello statuto dei lavoratori e l’ubicazione degli elettrodotti, si è tenuto a giugno del 2003 facendo registrare la partecipazione di circa 11 milioni e settecentomila elettori, pari al 25,7% degli aventi diritto. Relativamente all’art. 18, hanno votato «Si» l’87,4% dei partecipanti, e precisamente 10.245.809 elettori, ma senza esito, dal momento che il r. non è risultato valido.
Qualcosa di simile è successo in occasione del r. sulla fecondazione assistita del 12-13 giugno 2005: anche in questo caso l’affluenza alle urne è stata del 25,9 con una percentuale dei «Si» di circa l’85% e, anche in questo caso, l’opinione dei votanti è stata annullata per mancato raggiungimento del quorum. La particolarità di quest’ultima consultazione è che, seppure con qualche importante eccezione, le massime cariche dello Stato si sono schierate a fianco della chiesa e hanno adottato una posizione astensionistica, che poi ha avuto successo, ma che c’induce a riflettere sullo stato di salute dell’istituto referendario e della democrazia nel nostro paese.
Il 21-22 giugno 2009 50.221.071 elettori sono stati chiamati a esprimere un voto su tre questioni concernenti la legge elettorale vigente: 1. Per la Camera, abrogare la possibilità di collegamento tra liste e l’attribuzione del premio di maggioranza ad una coalizione di liste. 2. Per il Senato, abrogare la possibilità di collegamento tra liste e l’attribuzione del premio di maggioranza ad una coalizione di liste. 3. Per la Camera, abrogare la possibilità per uno stesso candidato di presentare la propria candidatura in più di una circoscrizione. Anche questo r. ha avuto esito nullo, con i seguenti risultati sui tre questiti:
Votanti 11.708.247 (23,31%) - 11.706.803 (23,31%) - 11.973.196 (23,84%)
Favorevoli 8.051.259 (77,63%) - 8.048.547 (77,68%) - 9.489.791 (87,00%)
Contrari 2.320.087 (22,37%) - 2.312.734 (22,32%) - 1.417.819 (13,00%)
Schede bianche 967.306 (8,26%) - 971.552 (8,29%) - 754.213 (6,29%)
Schede nulle 369.099 (3,15%) - 373.294 (3,18%) - 310.672 (2,59%)
I r. nulli costituiscono non solo una perdita di tempo e di denaro, ma anche un’autoesclusione del popolo dai giochi che contano, una rinuncia alla partecipazione politica e una minaccia mortale per la democrazia. Ma per fortuna non tutti i r. sono stati nulli. Tra i r. validi merita di essere ricordato quello dell’aprile 1993, che chiamava i cittadini ad esprimersi a proposito del finanziamento pubblico dei partiti. L’esito fu clamoroso: oltre il 90 per cento dei votanti, ossia più di 31 milioni di elettori, si dichiararono contrari al finanziamento pubblico. La particolarità di questa consultazione referendaria è che i politici hanno trovato il modo di disattendere la volontà degli elettori, semplicemente sostituendo il termine «finanziamento» col termine «rimborso» e, con questo stratagemma, hanno continuato a finanziare i partiti con denaro pubblico, già a partire dalla legge 515 del dicembre 1993, per continuare negli anni seguenti in un crescendo di erogazioni (BORDON 2008: 80-3). Il messaggio è chiaro: il popolo può pensarla come crede, ma in Italia il potere sovrano è saldamente in mano di pochi leader di partito e spetta a loro il diritto di pronunciare l’ultima parola.
10. DR: luci e ombre
15 anni fa
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