domenica 30 agosto 2009

4. I partiti

Come ha correttamente osservato Kelsen, “la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici” (1995: 62). Detto in altri termini, “senza partiti politici […] la democrazia […] non è possibile” (LINZ 2006: 440-1). Anche il sistema politico italiano ruota intorno ai partiti.
Il partito politico moderno origina dalla diffusione dei fermenti rivoluzionari del XVIII secolo, che decretano il tramonto dei regimi autocratici e la trasformazione dei sudditi in cittadini, e si afferma nel momento in cui al ricco signore aristocratico, il cui potere poggia su un vasto seguito di servitori e clienti, subentra il politico di professione, il cui potere poggia sul consenso elettorale. Ciò accade per la prima volta negli Stati Uniti d’America sotto la presidenza Jackson (1829-37), nella prima metà dell’Ottocento. Il partito moderno è tipicamente composto da due ordini di cittadini: i leader e i seguaci. I primi sono politici di professione e vivono di politica. Essi fondano i partiti e, dopo essersi candidati a rappresentare il popolo, elaborano le strategie del consenso. I secondi invece si limitano a votare per questo o per quello, più o meno come fa il giocatore al casinò quando punta su un colore o su un numero sperando che sia quello vincente.

4.1. Che cos’è il Partito?
Ma che cosa sono esattamente i partiti? “Per partiti – scrive Weber – si debbono intendere le associazioni fondate su una adesione (formalmente) libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di un gruppo sociale, e ai propri militanti attivi possibilità (ideali o materiali) per il perseguimento di fini oggettivi o per il raggiungimento di vantaggi personali, o per entrambi gli scopi” (1999 I: 282). “In una democrazia parlamentare – nota Kelsen, il partito politico è uno strumento essenziale per la formazione della volontà pubblica” (1994: 299). Secondo Held, i partiti non sono altro che “macchine costruite al fine di vincere la lotta competitiva per il potere” (1997: 264). Anche Giuseppe Schiavone associa il p. al potere e parla di “gruppi in lotta per la conquista del potere” (2001: 280), e poiché il potere deriva dal consenso, si comprende bene perché i partiti mettono al primo posto la conquista dei voti piuttosto che un programma politico. E infatti, come opportunamente osserva Anthony Downs, “i partiti formulano proposte politiche per vincere le elezioni; non cercano di vincere le elezioni per realizzare proposte politiche” (1988: 60).
Concludo questa breve rassegna con le parole di Mauro Calise: “L’immagine dominante – e preoccupante – dei partiti è ancora quella di una oligarchia chiusa, asserragliata nelle stanze delle segreterie, depositaria di un potere decisionale che si tramanda per cooptazione interna” (2006: 99). In estrema sintesi, “ogni partito ha per vocazione quella di ottenere consensi al di fuori di sé, al fine di accedere al potere” (MASSARI 2004: 37). Come dire che i p. sono associazioni private inseparabili dall’idea di potere. Sono centri di potere privato, la cui principale funzione è quella di acquisire consenso da parte dei cittadini elettori. In ultima analisi, come osserva Max Weber, i partiti sono “in primo luogo organizzazioni costituite per la raccolta dei suffragi” (1999 I, p. 282) e la conseguente costituzione della società duale.
La forza contrattuale dei partiti dipende dal numero dei loro elettori, e questa è la ragione per la quale, come osserva Norberto Bobbio, essi sono “organizzati in primo luogo per procacciarsi i voti, per procurarsene il maggior numero possibile” (1991: 148). Nel suo complesso, possiamo immaginare la politica partitica come un’industria che produce voti e per la quale valgono le stesse regole del mercato. “I voti, come qualsiasi altra merce, si possono comprare” (BOBBIO, VIROLI 2001: 92). Ed ecco perché le campagne elettorali sono così dispendiose e perché è così difficile per un cittadino povero conquistare molti voti. Secondo Schumpeter, “i modi in cui i problemi e la volontà popolare in merito ad essi vengono manipolati corrispondono esattamente ai modi della pubblicità commerciale” (1994: 251). Quello che conta sono i voti conquistati e le leggi di parte che si riesce ad approvare nel corso della legislatura grazie a quei voti.
In fondo, è una questione di business, di affari, un gioco spietato, dove ciascuno pensa per sé e dove prevale una logica di forza, anche se non si tratta di una forza armata. Mancano obiettivi di giustizia ed equità sociale, manca l’attenzione per la singola persona, mancano i nobili ideali della DD, manca la voglia di rendere il mondo migliore. Lo scopo primario del candidato è quello di convincere i cittadini a votarlo, e perciò egli ricorre a lusinghe e promesse di ogni tipo e, anche se sa che poi non le potrà mantenere, si riserva di trovare poi il modo di giustificarsi o di lasciar credere che tutto sia andato come previsto e che egli sia meritevole di conferma. Il suo scopo, infatti, non è quello di far seguire i fatti alle parole, ma quello di convincere in qualche modo i cittadini a rieleggerlo. Da parte sua, chi si reca alle urne lo fa per sostenere un partito nei confronti del quale ritiene di avere affinità di intenti e di programmi e perché spera nelle promesse e nella buona fede dei leader e per tutta una serie di altre ragioni che l’elettore avrà cura di valutare (cf. DOWNS 1988: 89-83).

4.2. Perché servono i partiti?
Se adesso ci chiediamo perché sono necessari i partiti, possiamo trovare una chiara risposta nelle parole di Hans Kelsen: “In una democrazia parlamentare, l’individuo isolato ha ben poca influenza sulla creazione degli organi legislativi ed esecutivi. Per ottenere un’influenza, egli deve associarsi con altri che condividano le sue opinioni politiche. Nascono così i partiti politici” (1994: 299). È come ammettere che, se non ci fossero i partiti, l’individuo sarebbe privo di valore, oppure, che l’individuo acquista valore attraverso il partito. Secondo Schumpeter, “Partito e uomini politici di partito sono semplicemente la risposta all’incapacità della massa elettorale di agire di propria iniziativa” (1994: 269-70). Anche in questo caso, si ammette che il partito ha la sua ragion d’essere nella riconosciuta mancanza di valore degli individui, nemmeno se sono uniti in massa. Alla fine, il partito diventa l’atto attraverso il quale si sancisce l’incapacità radicale delle persone e del popolo di curare i propri interessi.
Dunque, i partiti sono necessari perché i cittadini sarebbero incapaci. E non si tratta di incapacità temporanea e contingente: i cittadini sarebbero incapaci per principio e irrimediabilmente. Non solo si stabilisce che il cittadino non è all’altezza di assumersi responsabilità di tipo politico, ma non gli si attribuisce nemmeno la capacità di esprimere un voto responsabile. “Sappiamo che gli elettori non dispongono delle conoscenze necessarie a un voto informato, e d’altra parte quelle disponibili superano le capacità individuali di valutarle e confrontarle, tenuto conto che essi generalmente non possono dedicare alla decisione di voto che una piccola parte del proprio tempo” (MARTELLI 1999: 181).
Siamo di fronte ad un giudizio categorico e definitivo, che degrada il cittadino comune ad un livello infantile perenne o ad un ruolo di marionetta. È la teoria elitista che, come sappiamo, è fondata sulla radicale sfiducia nel cittadino. È questa teoria che sta alla base del partitismo, ma, poiché dove manca la fiducia nel cittadino manca anche la democrazia, ne ricaviamo che i partiti sono la negazione della democrazia stessa. Tale è il senso della categorica affermazione di Massimo Fini: “I partiti non sono l’essenza della democrazia, ne sono la fine” (2004: 55).

4.3. Cosa fanno concretamente i partiti?
Sostanzialmente, i partiti cercano di selezionare candidati e “scegliere programmi in grado di conquistare i voti di una maggioranza di elettori” (MARTELLI 1999: 126). Il messaggio che il candidato di partito invia ad ogni potenziale elettore è di questo tono: più voti otterrò, più sarò forte e più facilmente potrò fare i tuoi interessi. Gli elettori ascoltano i candidati dei diversi partiti e giudicano. Devono capire da che parte stare. Alla fine, essi “votano per l’interesse personale” (MARTELLI 1999: 175). Ecco allora che la campagna elettorale diventa un gigantesco gioco di interessi, regolato da norme e procedure. Questo sistema potrebbe funzionare se i cittadini fossero avvezzi a usare la propria testa e fossero capaci di farlo in modo autonomo e responsabile, ma così non è. Di norma, i cittadini sono poco informati e votano più sulla spinta emotiva del momento o per interessi contingenti che pensando al bene comune e, per conseguenza, sono poco inclini a formare fronti compatti e solidali, il che concede ai leader un vantaggio incolmabile con conseguente creazione di un sistema politico sbilanciato a favore dei rappresentanti e di un sistema di potere di tipo oligarchico. Il sistema funziona così: i voti trasformano il candidato in rappresentante eletto e lo investono dell’autorità legislativa; il rappresentante eletto procura di emanare leggi che piacciano ai cittadini, affinché questi continuino a votarlo. In questo gioco d’interessi, che è la politica, chi ha più da guadagnare è l’eletto, se non altro perché, come vedremo, il diritto vigente ne fa un soggetto privilegiato, mentre chi ci perde di più è il cittadino comune.

4.4. Limiti di democraticità dei partiti
Secondo l’apparenza, i partiti sono espressi dai cittadini a garanzia dei propri interessi; in realtà, essi sono strutture verticistiche. “Mentre le dottrine classiche e neoclassiche immaginano che il consenso democratico fluisca, entro i circuiti organizzativi dei partiti, dalla base verso i vertici, i flussi della legittimazione politica seguono in realtà una direzione inversa” (ZOLO 1992: 151). Oggi, in seno ai partiti, “il potere dei leader è cresciuto in maniera esponenziale [… e] la fedeltà ai leader è probabilmente la più importante forza motrice” (Ginsborg 2004: 220). Ora, in quanto strutture verticistiche, i partiti rispondono più agli interessi degli eletti che a quelli degli elettori, come se non fossero gli eletti al servizio degli elettori, ma gli elettori al servizio degli eletti.
A parte il suffragio, i cittadini sono tagliati fuori dai giochi di potere dei partiti. Infatti, come osserva Oreste Massari, “gli elettori sono muti e passivi, esprimendosi soltanto nel momento elettorale. Da questo punto di vista, gli elettori stanno al di fuori della struttura partitica“ (2004: 37). Dopo avere abdicato, col voto, al proprio potere sovrano, il cittadino non può far altro che sperare nella buona sorte, ma senza alcuna concreta certezza di buon governo. Pensiamo ai disoccupati, ai sotto occupati, ai precari, ai percettori di pensioni minime, a chi non riesce a pagare il mutuo della casa o le bollette dei servizi, ma anche a chi perde il posto di lavoro per colpa non sua, come nel recente caso Alitalia (2008). Ci dicono che in Italia un venti per cento della popolazione versa in condizioni di povertà. È un esercito di cittadini sfortunati che farebbe i salti mortali pur di stare meglio e, infatti, molti di loro votano questo o quel partito nella speranza di migliorare il proprio stato. Ma invano: una quota di povertà è considerata fisiologica in tutti i paesi a regime DR e, pertanto, non meritevole di eccessive attenzioni. Questa situazione di squilibrio non cambierebbe nemmeno se si concedesse ai cittadini la facoltà di revocare la loro delega. Infatti, se, per esempio, i dipendenti dell’Alitalia che hanno perso il posto di lavoro potessero riprendersi il proprio voto, cosa cambierebbe per loro, ora che la frittata è fatta?
Ben diversa è la situazione se la osserviamo dal punto di vista degli eletti, ossia dei parlamentari, i quali, grazie ai voti, si assicurano, indipendentemente da come andranno le cose, una serie di privilegi di natura economica (indennità parlamentare, diaria per il soggiorno a Roma, rimborso spese, assegno di fine mandato, assegno vitalizio), che sono stabiliti da leggi emanate o conservate dagli stessi parlamentari. Ai privilegi economici bisogna aggiungere i vantaggi indiretti che derivano dalla posizione di potere dei parlamentari, che sta alla base dei fenomeni della corruzione e del nepotismo, oltre che della facoltà di emanare leggi ad personam finalizzate a tutelare interessi aziendali oppure a procurare un’immunità giudiziaria, come dimostra il caso di Berlusconi, il quale, tutte le volte che è indagato dalla giustizia, tira in ballo il fatto di godere di un vasto consenso popolare e dice sostanzialmente ai giudici: non potete procedere contro di me, non potete intralciare la mia azione di governo, perché è voluta da popolo e voi non potete andare contro il popolo sovrano.
Ma c’è un altro vantaggio per il rappresentante, che non è meno importante di quelli menzionati, il vantaggio di non essere vincolato da un mandato specifico e di godere di una quasi piena libertà decisionale, in assenza di un’accountability vera e propria. Il leader eletto non ha nessun obbligo di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, né deve rendere conto agli elettori del suo operato, ma rimane “padrone del proprio atteggiamento” (WEBER 1999: I, 291). “Il giudizio degli elettori è retrospettivo” (PASQUINO 1995: 57), può essere espresso cioè solo alla fine del mandato e, nella peggiore delle ipotesi, il candidato eletto rischia di non essere confermato alle successive elezioni. La legge prevede comunque condizioni di privilegio anche per chi sia rimasto in carica una sola legislatura. Così, di solito, avviene che anche i parlamentari più lavativi e opportunisti, alla fine del loro mandato, vengono comunque premiati. Io la chiamo «irresponsabilità».

4.5. Le ragioni di una crisi
Oggi c’è chi parla di “crisi del partito politico”, anche se rimane del tutto incerta “la cura da adottare o la soluzione da scegliere in una eventuale fase post-partitica” (BARTOLINI 1996: 531). Certamente una delle cause di questa crisi è da ricercare nella tendenza dei partiti nel degenerare in strutture verticistiche e di potere e ad estraniarsi dai bisogni dei cittadini. Il fenomeno era già noto a Robert Michels un secolo fa. Secondo lo studioso, infatti, tutti i partiti, al loro sorgere, dichiarano di ispirarsi ai più nobili ideali democratici, ma, alla fine, il potere si concentra inevitabilmente nelle mani di pochi leader. “Ogni organizzazione di partito – afferma Michels – rappresenta una potente oligarchia che poggia su piedi democratici” (in DELLA PORTA 2001: 85). È naturale che i cittadini si allontanino da strutture, che vedono sempre più estranee e dalle quali si vedono rappresentati sempre meno. E infatti, solo il 16% degli elettori italiani dichiarano di fidarsi dei partiti (DELLA PORTA 2001: 85).
Ma che cos’è questa crisi dei partiti se non il riflesso di una sfiducia ricambiata da parte dei cittadini? Una delle principali ragioni di questa sfiducia è certamente rappresentata dai limiti propri degli uomini politici, molti dei quali, non avendo esercitato alcun mestiere o professione, potrebbero avere una conoscenza inadeguata delle reali condizioni di vita dei loro elettori. Inoltre, la facilità con cui ricoprono “una pluralità di cariche eterogenee” induce a sospettare che lo facciano senza possedere adeguate competenze specifiche, dato che non si può essere competenti in tutto. Il fatto è che le carriere degli uomini politici sono decise dai dirigenti del partito e non sempre sulla base di capacità obiettive. Un’altra causa della sfiducia dei cittadini può essere individuata nel fatto che il parlamento non è rappresentativo del popolo, essendo formato prevalentemente da persone istruite e benestanti, mentre il popolo è formato prevalentemente da persone con titoli di studi e redditi modesti (PASQUINO 1999: 51-5).
A queste condizioni, è difficile che gli uomini politici possano pensare al bene comune, mentre è più facile che essi si servano del partito per i propri interessi e per le proprie carriere. E infatti, commenta Massimo Fini, “nessuna democrazia rappresentativa è una democrazia, ma un sistema di minoranze organizzate che prevalgono sulla maggioranza dei cittadini singolarmente presi, soffocandoli, limitandone gravemente la libertà e tenendoli in una condizione di minorità” (2004: 55).
Non bisogna poi dimenticare il riverbero che la logica partitica e clientelare dello Stato ha nel modo di funzionare di tutte le altre strutture del paese, come associazioni, organizzazioni, gruppi di potere e lobby, che spesso si avvantaggiano più ricercando concessioni politiche che attraverso un continuo miglioramento dei loro prodotti. Così facendo, essi curano sì i propri interessi, ma impoveriscono il paese. Infatti, “Quanto più i centri di decisione statali saranno dominati da lobbies che hanno un incentivo a favorire politiche rivolte alla redistribuzione del reddito a proprio favore, tanto più l’attività statale produrrà effetti negativi nei confronti delle performances economiche e, comunque, li produrrà in misura incomparabilmente più grande di quel che si avrebbe in uno Stato privo di lobbies” (OLSON 1996: 44).

4.6. Il costo dei partiti
E veniamo all’ultima questione: chi finanzia il costo dei partiti? I casi possibili sono due (o tre): o si lascia che siano gli stessi partiti a provvedere da sé medesimi, reperendo i fondi necessari nel privato, sotto forma di quote associative o di sponsorizzazioni da parte di lobby e gruppi interessati, oppure vengono finanziati dallo Stato (il terzo caso sarebbe un vario mix di questi due). In Italia, secondo Enrico Melchionda, “hanno fatto fallimento entrambi i modelli di finanziamento della politica oggi predominanti, tanto quello basato sul mercato e sulle donazioni private quanto quello basato sulle sovvenzioni pubbliche” (1997: 203-4), com’è dimostrato dallo scandalo di Tangentopoli. La corruzione politica non costituisce un tratto esclusivo del nostro paese, ma è presente, sia pure in forme e gradi diversi, anche in altre democrazie mature (DELLA PORTA, MÉNY, 1995). Insomma, da dovunque provenga, il denaro costituisce una tentazione pressoché irresistibile per i detentori del potere politico, e questo, a mio avviso, è da ritenere un ulteriore limite strutturale delle nostre democrazie partitiche.

4.7. Fine dei partiti?
La crisi dei p. è da reputare strutturale e senza possibilità di ritorno, perché il suo superamento presupporrebbe di rimettere al centro della scena politica la persona accreditata delle capacità di cogliere i propri reali interessi, accordare fiducia ai cittadini, ma, così facendo, crollerebbero i fondamenti ideologici del partito stesso, ossia l’inettitudine aprioristica dei cittadini, e, crollando il fondamento, crollerebbero anche i partiti. Ha ragione dunque Mauro Calise quando afferma che è finita l’era della partitocrazia, che bisogna pensare al dopo-partiti e che dobbiamo dare al nostro paese un nuovo assetto istituzionale, capace di dare più voce ai cittadini e di restituire la sovranità al popolo. “Ligi all’imperativo costituzionale che recita che ogni volere individuale è sovrano assoluto di se stesso, aspettiamo che la ragione e i numeri producano ciò che la nostra identità nazionale ci ha negato per il passato. Sulle ceneri della partitocrazia siamo pronti a festeggiare il trionfo dell’individuo ma pretendiamo che ciò sia a salvaguardia della sovranità popolare” (CALISE 1994: 146).

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