“La Costituzione giacobina dell’anno I prevedeva la possibilità di referendum approvativi su ogni legge partendo dalla concezione di Rousseau secondo cui «la sovranità non può essere rappresentata»” (BARBERA 1997: 17). Oggi però non tutti i governi DR praticano il r. e non tutti quelli che lo praticano lo fanno allo stesso modo. “La Svizzera è di gran lunga il paese che fa il più grande uso di consultazioni referendarie al mondo” (RANNEY 1994: 37); per la maggior parte si tratta di r. cantonali o comunali, mentre quelli federali sono una minoranza. Dopo la Svizzera, i paesi democratici dove si ricorre più frequentemente sono la California e l’Italia, seguiti da Australia, Nuova Zelanda e Francia, mentre altri paesi vi ricorrono in modo eccezionale (Olanda, Regno Unito, Belgio, Germania, Spagna, Canada, ecc.) o mai (Giappone, India, Israele, Stati Uniti).
5.1. A che cosa serve il referendum?
Il r. serve a dare ai cittadini la facoltà di prendere decisioni che ordinariamente spettano ad organi di potere appositamente istituiti, come approvare o respingere un governo (per es. il r. istituzionale del 1946, che ha respinto la monarchia e ha fatto nascere la Repubblica) o una costituzione (r. costituzionale), proporre, revisionare o abrogare una legge (r. legislativo), avanzare una proposta da inserire nell’ordine del giorno (r. di iniziativa) o, anche più semplicemente, revocare una carica (r. sanzionatorio). A seconda dell’orbita in cui opera, il r. può essere nazionale, regionale, locale, sindacale, partitico, e via dicendo.
5.2. Il Referendum nella Costituzione
La nostra Costituzione prevede solo tre tipi di r.: abrogativo ad iniziativa popolare (art. 75), costituzionale (art. 138) e per la modificazione territoriale delle regioni (art. 132), di cui, solo il primo presenta i caratteri dell’istituto ordinario e di frequente impiego. In realtà, nelle intenzioni dei padri costituenti, il r. aveva un significato solo simbolico, una sorta di concessione dovuta al popolo, affinché fosse chiaro che la nascente Repubblica era una vera democrazia. Nessuno pensava infatti ad una sua applicazione pratica e, meno che mai, ordinaria e frequente, tanto è vero che, dopo il r. istituzionale del 1946 (volete la monarchia o la repubblica?), cui partecipò l’89,1% degli aventi diritto, per quasi trent’anni non si è sentito il bisogno di farvi ricorso.
5.3. Referendum e Democrazia
Il r. non è espressamente previsto né nelle monarchie, né nelle oligarchie, né nelle dittature e, pertanto, viene abitualmente considerato un istituto altamente e tipicamente democratico. Ma non è esattamente così, almeno per tre ragioni. La prima è che, pur non essendo previsto dalla legge, anche i regimi autocratici vi ricorrono “con il fine manifesto di mobilitare il consenso delle masse” (CACIAGLI, ULERI 1994: 18). La seconda ragione va ricercata nella modalità d’origine dell’istituto, che, come osserva Pier Vincenzo Uleri, è solo un prodotto storico della democrazia liberale, “frutto soprattutto dei conflitti tra i leader, le forze politiche ed i rispettivi progetti politico-istituzionali che si scontrano nella costruzione dei regimi liberali e democratici moderni” (2003: 114). La terza e più importante ragione della scarsa democraticità del r. è che non c’è alcuna garanzia che esso rispecchi fedelmente la reale volontà popolare, nemmeno quando si svolga in modo assolutamente conforme alle regole democratiche. Dal momento che va contro l’opinione comune, questo terzo punto richiede di essere dimostrato, ed è quello che mi accingo a fare.
Tra i limiti della democrazia referendaria, detta anche «del monosillabo», va annoverato quello di porre le questioni in modo troppo semplicistico, trascurando il fatto che le risposte politiche non sono quasi mai riducibili drasticamente a due. Si tratta, inoltre, di “un tipico sistema decisionale a «somma nulla»” (DI GIOVINE 2001: 89), dove la maggioranza vince e prende tutto, mentre la volontà della minoranza (che spesso è maggioranza) viene del tutto sacrificata. Così, anche se il r. esprimesse realmente la volontà della maggioranza, rimarrebbe sul campo il sacrificio del punto di vista della minoranza, che non è affatto facile da giustificare sotto il profilo del principio democratico. Infatti, “I referendum non guardano in faccia a nessuno e non possono che calpestare i diritti delle minoranze” (SARTORI 1993: 86).
C’è, infine, da considerare il fatto che un governo dispone di mezzi atti a vanificare il responso referendario, ad aggirarlo in qualche modo. Tutto ciò basta a spiegare la scarsa attrattiva che questo diritto esercita sull’elettorato. “Resta che le consultazioni referendarie sono un elemento non indispensabile della democrazia. Vi sono infatti democrazie che funzionano bene anche senza farvi ricorso” (CACIAGLI, ULERI 1994: 24).
5.3.1. Seguiamo l’iter referendario
Vediamo innanzitutto come si svolge l’iter referendario. Il punto di partenza è la raccolta di 500 mila firme di cittadini o la richiesta da parte di cinque Consigli regionali in merito alla questione che si vuole sottoporre al giudizio degli elettori. Fatto ciò, la Corte Costituzionale valuta la conformità di quella questione alle norme di legge e, se l’esito è positivo, si dà inizio alla fase operativa, che si concluderà col voto. Un r. viene considerato valido quando votano più del 50% degli aventi diritto e nullo in caso contrario.
Ora, immaginiamo che qualcuno abbia interesse a proporre un r., per esempio, sul federalismo. Chi può raccogliere le 500 mila firme necessarie? Non certo il cittadino comune: per farlo occorrono risorse adeguate e un apparato organizzativo all’altezza, che il cittadino comune non ha. Possono raccogliere le firme, dunque, solo i gruppi istituzionali (per es. un sindacato o un partito), le grandi aziende private (per es., un giornale) o qualche personaggio particolarmente facoltoso e influente (per es., Luca Cordero di Montezemolo), non certo i semplici cittadini. C’è un’altra questione: chi mi garantisce che i 500 mila firmatari conoscano bene l’oggetto per cui hanno firmato, nel nostro caso i vantaggi e gli svantaggi del federalismo? Molti potrebbero non sapere precisamente per che cosa hanno firmato o potrebbero aver firmato solo sulla fiducia nei confronti del promotore o perché attratti da messaggi propagandistici o per altre futili ragioni. Al limite, potrebbe accadere che un promotore privato compri le firme, offrendo, ad esempio, cento euro a ciascun sottoscrittore: gli basterebbero 50 milioni di euro, una cifra abbordabile per un grande imprenditore o una grande azienda! Occorre, dunque, fare una netta distinzione fra i promotori formali del r., che sono i 500 mila sottoscrittori, e i promotori veri, che, almeno in questa prima fese, sono gruppi organizzati e personaggi potenti: i r. esprimono la volontà di questi ultimi e non la volontà del popolo.
Poniamo che le firme necessarie siano state raccolte e sia stato superato l’esame della Corte Costituzionale. Passiamo ora alla terza tappa dell’iter, quella del voto, che è preceduta da una fase preparatoria, nella quale, solitamente, si costituiscono due fazioni (una favorevole, l’altra contraria), che si organizzano e danno il via ad una serie di iniziative (articoli sugli organi di stampa, conferenze, dibattiti, servizi radiofonici e televisivi, volantini, manifesti murari, propagande di ogni genere). Ancora una volta, è utile ribadirlo, protagonista non è il cittadino comune, che solitamente non dispone dei mezzi necessari per far sentire la propria voce, né ha la facoltà di accedere ai mass media e nemmeno è in grado di svolgere un ruolo significativo al fine di orientare l’opinione della gente. Anche in questa fase, i protagonisti del r. sono una minoranza elitaria.
Giunge infine il giorno del voto. È probabile che una metà degli elettori preferiscano andare al mare o ai monti, o si nascondano dietro qualche impegno, come per crearsi un alibi e sottrarsi impunemente all’insopportabile peso delle proprie responsabilità. Non avendo idee chiare e non sapendo da che parte stare, costoro scelgono di ignorare la consultazione. Poi potranno dire «io non c’ero», come per lavarsi le mani e liberarsi da qualsiasi senso di colpa. Poniamo che abbia votato il 50% + 1 degli aventi diritto. Verosimilmente, essi si sono fatta una qualche cultura sull’argomento in causa, leggendo giornali e riviste (di solito della propria corrente) e sviluppando le proprie idee alla scuola di opinionisti partigiani, oppure sotto l’influenza di discorsi di piazza, mentre pochissimi ne hanno una conoscenza tale da poter esprimere un’opinione personale veramente libera. È verosimile, dunque, che la maggior parte degli elettori non sappia che cosa sia di preciso il federalismo e voti sulla fiducia dei promotori oppure per semplice senso del dovere civico o in base a quanto ha sentito dire al bar o in TV, comunque in modo del tutto irresponsabile.
Ora, supponiamo che il 50% + 1 dei votanti (che corrisponde a circa il 26% degli aventi diritto al voto) si sia espresso a favore del federalismo. Si direbbe «il popolo vuole il federalismo» e si avvierebbero le procedure necessarie per attuare la «volontà popolare». In realtà, nel nostro caso, non è vero che il «popolo» ha chiesto il federalismo. Infatti, il 74% degli aventi diritto al voto o ha ignorato la consultazione o ha votato contro e solo il 26% ha votato a favore, molti dei quali senza avere idee chiare, indottrinati dai demagoghi o ipnotizzati dalla pubblicità. Se andiamo a vedere bene, scopriamo che, sempre nel nostro caso, il federalismo è passato grazie alla ferma volontà di non più del 5-10% degli elettori e grazie all’iniziativa di uno o pochissimi personaggi potenti. Così concepito, il r. è uno strumento non molto dissimile dalla forza bruta (vincono i più forti, non il popolo) e il sistema rimane più vicino all’oligarchia che alla democrazia.
5.4. Conclusioni
Alla luce di quanto detto, possiamo concludere che il vero obiettivo per una democrazia non è quello di avere l’istituto referendario, ma quello di avere cittadini capaci di usare la propria testa in modo autonomo e responsabile. Chiamiamoli pure «cittadini democratici». Se questi ci sono, allora un eventuale r. rientrerebbe fra le pratiche democratiche; se questi non ci sono, nessun r. potrà mai realizzare una democrazia. Finché non ci saranno sufficienti cittadini democratici, i r. rischiano di ridursi a nient’altro che a temibilissime armi nelle mani dei potenti, che si servono del «popolo» per legittimare il proprio potere. È una storia antica, che si ripete. Una volta il potere veniva legittimato da Dio, oggi dal Popolo. In entrambi i casi, Dio e Popolo non c’entrano un bel niente: essi fungono semplicemente da strumento della volontà dei potenti. La sostanza non cambia.
10. DR: luci e ombre
15 anni fa
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