domenica 30 agosto 2009

1. Un Mondo duale

“In ogni civiltà vi è una minoranza di spiriti nei quali si incarnano, più o meno pienamente, i valori propri di quella civiltà, e una massa inerte, che segue i suoi istinti, sensibile soltanto alle influenze collettive, che non riflette su nulla, o soltanto su qualche obiettivo personale immediato, e, a dire il vero, manifesta assai poco, o per nulla affatto, la personalità umana” (LECLERCQ 1965: 109). È il modello di società duale che si è affermato ovunque nel mondo e che viene riproposto anche nelle «civilissime» DR.
È da oltre cinquemila anni che l’uomo è abituato a vedere in ogni società un «sopra» e un «sotto», un livello superiore e uno inferiore, una minoranza dominante e una maggioranza dominata, e questo quadro è divenuto per lui così familiare da sembrargli un fatto normale, naturale, ineluttabile. Nell’antica Grecia però qualcuno ha cominciato a dubitare di questa «normalità» e ha cominciato a porsi domande sulle reali origini della distribuzione del potere politico. Da questo momento l’uomo ha cominciato a vedere la società duale come fatto problematico, su cui val la pena di indagare, e questo segna l’inizio del pensiero politico. Come sempre accade in casi simili, i pensatori si sono divisi: alcuni vedono nella società duale un simbolo di progresso e civiltà, altri ci vedono un simbolo di indebito dominio dell’uomo sull’uomo.
I sostenitori della società duale partono dal presupposto che, per loro natura, gli uomini non sono uguali, ma alcuni sono destinati a comandare, altri ad ubbidire. È bene dunque distinguerli in due categorie: i leader, cioè coloro che, o per proprie capacità o per nascita o per entrambe le cose, sono legittimamente destinati al comando, e i seguaci, cioè coloro che, per le stesse ragioni, sono destinati a lavori umili e servili. La società duale ha dimostrato una buona funzionalità ed un’eccellente longevità che dura ormai, quasi ininterrottamente, da circa cinquemila anni, anche se il prezzo pagato in termini di guerre e ingiustizie sociali è stato finora altissimo.
Da parte loro, gli oppositori di questo paradigma hanno registrato solo successi sporadici ed effimeri e non sono stati capaci di elaborare una teoria organica e convincente di un modello alternativo di società. Hanno invece prodotto la cosiddetta letteratura utopica e alcune proposte atte ad attenuare le più acute ingiustizie sociali, ma non tali da scalfire il solido impianto della società duale. Gli antichi ateniesi hanno provato a realizzare una DD elitaria e schiavista, che ha potuto sopravvivere per circa due secoli; i fratelli Gracchi hanno tentato la via delle riforme sociali, ma hanno pagato con la vita; Spartaco ha impugnato le armi, ma è stato sconfitto in battaglia; Gesù di Nazareth ha predicato in nome di Dio l’amore cristiano, ma è stato inchiodato su una croce. Nessuno è riuscito a disegnare in modo credibile i tratti di una società una e corale.
La società duale ha resistito a tutti gli attacchi e si è imposta come l’unica forma possibile di società complessa, evoluta e civile. L’unico spazio lasciato libero agli uomini di pensiero è stato quello di elaborare misure atte a smussare gli angoli più vivi delle ingiustizie sociali. Le stesse Rivoluzioni americana e francese hanno portato all’abolizione della schiavitù e alla proclamazione dei diritti del cittadino, ma non hanno messo in discussione la struttura duale della società. Lo stesso dicasi dei movimenti socialisti dell’Ottocento, che si sono adoperati per rendere meno dura la vita degli operai nelle fabbriche e per dare una certa dignità ai lavoratori, ma senza interferire sul modello duale.

1.1. La società duale DR
In uno Stato DR, di norma, chi detiene il potere economico esercita, direttamente o indirettamente, anche il potere politico, e finisce per diventare una classe privilegiata o, se si preferisce, una casta. “È banalmente noto che nelle società industriali avanzate, quando non è brutalmente spartito fra i partiti e gli amici loro, il potere è nelle mani di oligarchie. L’organizzazione della politica, così come è concepita in queste società, porta quasi fatalmente alla formazione di classi dirigenti ristrettissime, il cui ricambio è assicurato da una specie di perenne cooptazione ed espulsione gestita dall’interno dell’élite del potere; le elezioni sono delle grandi cerimonie laiche che, salvo eccezioni anche clamorose, incidono in misura minima sulla struttura della classe dominante. Si tratta di cerimonie di investitura che consentono di operare una scelta fra persone già scelte secondo modalità la cui analisi non mi compete in questo libro. Riguarda o riguarderebbe, semmai, gli specialisti, i sociologi e gli scienziati della politica. Molto spesso il controllo del potere consente un intreccio fra cosa pubblica, interessi privati e società politica tale da portare alle conseguenze più o meno negative o addirittura devastanti che in molti paesi stanno davanti ai nostri occhi. È cosa nota che i partiti, così come sono organizzati, finiscono per essere delle macchine infernali che si dilatano come i mostri di certi film di fantascienza penetrando ovunque e assumendo un controllo capillare e soffocante della società che rende utopico pensare alla felicità, o almeno alla serenità della gente” (ACQUAVIVA 1994: 92).
Nei paesi DR si possono distinguere agevolmente due livelli di cittadinanza: quello dei cittadini-rappresentanti, che sono accreditati delle qualità necessarie per assumersi responsabilità di governo, e quello dei cittadini-comuni, che si ritiene sprovvisti di quelle qualità; quello dei cittadini agiati, che sono liberi di impostare e seguire il proprio progetto di vita, e quello dei cittadini indigenti, che ogni giorno devono fare i salti mortali per far quadrare il bilancio familiare e ai quali non resta il tempo per occuparsi d’altro che di sopravvivere; cittadini di serie A e cittadini di serie B. In ogni Stato e in ogni città DR i due livelli sono ben riconoscibili e danno vita a due realtà profondamente diverse: nella cittadinanza di serie A c’è istruzione, cultura, conoscenza, organizzazione, abbondanza di beni, ostentazione di lusso; nella cittadinanza di serie B c’è ignoranza, disordine, ristrettezza e miseria. Secondo Nagel, “la stratificazione della società in classi è chiaramente un male: come potrebbe non essere un male il fatto che fin dalla nascita certe persone abbiano prospettive di vita radicalmente inferiori a quelle degli altri?” (1998: 39).
Questo quadro è particolarmente preoccupante se pensiamo che i paesi DR costituiscono la parte più avanzata e civile dell’umanità. Negli altri paesi è ancora peggio, nel senso che la dualità sociale è ancora più marcata e i cittadini di serie A sono meno numerosi. Il risultato è duplice: da una parte, non c’è al mondo città di alto profilo che non contenga un campionario di miseria, fatto di sottoalimentazione, mortalità infantile, vagabondaggio e disoccupazione; dall’altro lato, non c’è città di infimo livello dove, accanto all’indigenza delle masse, non sia possibile notare la magnificenza di una minoranza di persone che si muovono nella sfera dell’alta tecnologia e dell’alta moda, dei grandi affari e dell’alta finanza. Nella ricca Europa, ad esempio, si contano oltre 50 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà (ATKINSON 2000: 11) e che, pertanto, sono escluse dall’esercizio dei diritti e incapaci di organizzarsi e portare avanti una qualsiasi azione politica seria. E lo stesso dicasi degli altri Continenti.
Ora, se con una semplice operazione mentale, mettiamo insieme tutte le società duali del pianeta e le consideriamo come se fossero un’unica realtà, noteremo non uno, ma Due Mondi: il Primo Mondo è quello dei ricchi, il Secondo Mondo quello dei poveri.
Nel mondo duale sono facilmente riconoscibili un esiguo numero di persone così ricche da vivere ad un livello quasi sovrumano e una massa di persone così povere da vivere ad un livello quasi subumano. È stato calcolato che, nel 1999, le 225 persone più ricche della terra possedevano un patrimonio pari al reddito di un intero anno del 47% della popolazione più povera del pianeta e cioè di 2,8 miliardi di persone (BRAVO 2001: 269). Lo «straricco» non si accontenta di vivere agiatamente e senza affanni, ma, dopo aver conquistato il potere economico, vuole anche conquistare quello politico, così da non vedere sopra di sé altro che il cielo. Egli perciò non usa il suo denaro per le proprie necessità, ma piuttosto per dominare altri uomini, ossia per il potere. Secondo Friedman, questa concentrazione del potere nelle mani di pochi costituisce “la più grande minaccia alla libertà umana” (1981: 309). Lo «strapovero», infatti, deprivato di ogni dignità umana, non sa che farsene del diritto alla libertà, che pure la legge spesso gli riconosce, e, piuttosto, pensa a sbarcare il lunario alla meno peggio, arrabattandosi in ogni modo possibile. Di norma, il potenziale umano della massa dei poveri non riesce ad esprimersi, ed è davvero deplorevole che tolleriamo questo enorme spreco di risorse mentali, che potrebbero contribuire, anche in modo determinante, alla crescita culturale dell’umanità.
Nel mondo duale i pochi cittadini liberi condizionano e guidano dall’esterno le masse come se fossero bambini o marionette: è il cosiddetto «problema di Pinocchio». Ebbene, i fili che muovono gli individui non sono presenti solo nei regimi autoritari, ma sono ben visibili anche nei paesi a regime DR, e poco cambia se, al posto dei tiranni a muoverli siano i molteplici attori del capitalismo globale: in entrambi i casi il «problema di Pinocchio» resta irrisolto. Auspicare la liberazione dell’individuo dai fili che lo legano e la sua restituzione alla libertà implicherebbe liberare il mondo dalla povertà. Ma perché i ricchi, che sono i soli a disporre dei mezzi necessari allo scopo, dovrebbero muoversi in questa direzione?

1.2. Prospettive per il futuro
Oggi abbiamo bisogno di nuovi Tommaso Moro, che sappiano comprendere l’importanza di realizzare un mondo unito, guidato da norme di giustizia, anziché di forza, e interessato a valorizzare le singole persone. Abbiamo bisogno di ricchi che, anziché impiegare il loro denaro superfluo per dominare altri uomini, dedichino tutti i propri averi e tutto il proprio essere allo scopo di creare un modo migliore e più giusto, di cui essi saranno ricordati come gli ispiratori e gli artefici.
In realtà, non c’è una sola ragione per cui dovremmo aspettarci che i ricchi si spoglino dei loro averi e inizino a lottare per una più equa ripartizione delle risorse fra gli uomini. Ma non possiamo nemmeno escludere che qualche ricco illuminato riesca a cogliere nel fondo della propria coscienza i vantaggi di poter vivere in un mondo più giusto. In fondo, è solo una questione di coscienza, ed è lecito sperare che, prima o poi, qualche grande uomo dei nostri tempi possa volere farsi emulo di Tommaso Moro, l’importante uomo politico del Cinquecento che seppe immaginare e descrivere una società migliore rispetto a quella in cui egli si trovò a vivere.

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