domenica 30 agosto 2009

10. DR: luci e ombre

10.1. Le luci
Il fatto che il sistema DR si sia affermato in molti paesi del mondo e sia operativo presso cinque civilissimi paesi del Nord Europa (Danimarca, Islanda, Norvegia, Svezia e Finlandia), nei quali peraltro, con l’eccezione della Danimarca, le iniziative popolari e le consultazioni referendarie sono scarsamente praticate e dunque i processi decisionali sono “quasi esclusivamente fondati sul principio di rappresentanza” (SUKSI 1994: 133), prova la sua intrinseca validità. La DR è sicuramente preferibile ai governi autocratici, rispetto ai quali riconosce maggiori diritti e rende più numerosi centri di potere, tanto da meritare l’appellativo di «poliarchia».

10.2. Le ombre
Le ombre sono ben più numerose e importanti. Ne ricordo alcune:
1. La DR è un sistema politico non pienamente democratico, perché non riconosce la sovranità dell’individuo. Diceva Montesquieu nello Spirito delle leggi: “il popolo, ciò che non può fare da solo, lo rimette ai suoi ministri (II,2). Ma soltanto ciò che non può fare da solo. Oggi noi diciamo il contrario: il popolo non può fare niente da solo, ma deve rimettere tutto ai suoi «ministri», ovvero ai suoi rappresentanti” (BOBBIO 1999: 375). Questo tipo di democrazia, osserva Bobbio, si potrebbe chiamare “aristocrazia elettiva” o “elitismo democratico” (1999: 375), o in qualsiasi altro modo, ma non democrazia.
2. Le liste dei candidati politici vengono stilate e imposte dall’alto. “Noi non scegliamo i candidati alle elezioni. Li scelgono i partiti, cioè le oligarchie” (FINI 2004: 65).
3. Il cittadino può scegliere solo tra i candidati del proprio territorio. Se un cittadino, per esempio, si identifica col candidato Rossi, che si presenta in una sede diversa dalla sua, non può votarlo.
4. L’inclusione nella lista dei candidati non avviene per meriti personali, dei quali non esiste un metodo obiettivo e condiviso di valutazione, ma per ragioni di strategie e interessi di partito. Ciò vuol dire che i candidati non sono sicuramente i «migliori». Per di più, dovendo sottostare a logiche di partito, essi sono impediti dal perseguire liberamente una propria linea politica, ammesso che l’abbiano.
5. La DR tollera la disuguaglianza di opportunità e consente la concentrazione del potere economico, politico e informazionale nelle mani di una sola persona (il caso Berlusconi insegna).
6. Durante il periodo del mandato, che dura cinque anni, il cittadino non può ritirare il suo voto e dovrà continuare ad essere rappresentato anche se non lo vuole.
7. Anche i cittadini che non votano vengono ugualmente rappresentati: non è loro riconosciuta la libertà di non essere rappresentati e, pertanto, la loro astensione non ha alcun significato pratico e alcun effetto politico.
8. Le leggi vengono discusse e approvate in parlamento, la giustizia è amministrata dalla magistratura, l’informazione è gestita dal corpo dei giornalisti, l’economia è controllata dalle grandi industrie e dai grandi gruppi commerciali e finanziari, la religione è monopolizzata dal magistero della chiesa. Tutti questi gruppi funzionano come caste, da cui il popolo è escluso per principio oppure perché è ritenuto pregiudizialmente incapace o indegno di farne parte.
9. Se adesso guardiamo da vicino una qualsiasi di queste caste, noteremo che il potere non è diviso in parti uguali fra tutti i suoi membri, ma che c’è una casta nella casta. Per esempio, nel parlamento, la gran parte del potere è effettivamente esercitato dal 5-10% dei membri, ossia da meno di cento persone, che rappresentano il potere politico supremo, e con costoro il popolo non ha alcun contatto diretto. Sono due mondi lontanissimi.
10. La tipica società DR è di tipo duale e genera un duplice livello di cittadinanza: cittadini di serie A e di serie B.
In pratica, i cittadini comuni sono liberi solo di stare al seguito di qualcuno. Prima c’era il re e il duce, e il popolo li acclamava. Caduti la monarchia e il fascismo, e mentre soffiava forte il vento americano (e anche sovietico), i demagoghi dell’epoca convincevano il popolo che era tramontato il tempo dei regimi autoritari, e iniziava così la storia della repubblica, che è una storia di partiti. Il partito più forte fu per molti anni la Democrazia Cristiana, e non poteva essere altrimenti in un paese, dove dominava la chiesa, la quale, in linea con gli americani, vedeva nel comunismo il pericolo numero uno (la DC era il partito della chiesa e si appoggiava agli USA in funzione anticomunista). Poi venne Tangentopoli, un vero e proprio terremoto politico, che portò allo scoperto l’esistenza di una corruzione diffusa in tutta la classe politica di governo, riuscendo a rovesciare i gruppi dominanti e a rinnovare i partiti politici e le relative leadership. Cosa fece il popolo? Semplice: abbandonò i vecchi leader (gli Andreotti, i Forlani, i De Mita e i Craxi) e cominciò a seguire e a sostenere i nuovi (i Prodi, i Bossi, i Fini e i Berlusconi). Il popolo semplicemente si adeguò alla nuova situazione, facendo quello che era abituato a fare da sempre: seguire e sostenere i leader del momento. Dopo Tangentopoli cos’è cambiato? Solo i nomi dei partiti e dei leader. La conclusione che trae Massimo Fini è impietosa: “La democrazia rappresentativa […] non è la democrazia. È una finzione. Una paranoia. Un imbroglio. Una frode. Una truffa […]; «un modo per metterlo nel culo alla gente col suo consenso»” (2004: 31).
Il sistema DR è come il gioco del poker: quattro giocatori si alzano dal tavolo e vi si siedono altri quattro, ma il gioco non cambia. Le regole del gioco della Seconda Repubblica sono quelle della Prima, e sono regole imposte dall’alto. Il popolo è tagliato fuori, s’intravede appena sullo sfondo, ma non partecipa al gioco, il che conferma che non c’è vera democrazia. E allora viene da chiedersi: perché non cambiare? “Certamente, la democrazia pur formale e oligarchica delle nostre società è migliore delle barbariche strutture statali fondate sul partito unico. Ma chiediamoci sinceramente: è indispensabile continuare a friggere in padella per non cadere nella brace? Perché non cominciare a pensare con la nostra testa, a dissacrare, non la democrazia, ma questa democrazia che certamente non lavora per la nostra felicità?... Perché non cominciamo a chiederci se non può esistere una democrazia senza partiti, o senza dei partiti così organizzati?” (ACQUAVIVA 1994: 92-3).

10.3. Una «Terza via»: la DD
Da più parti si avverte l’esigenza di un cambiamento e le proposte di «Terze vie» sono lì a dimostrarlo. Ciò che le accomuna è l’introduzione di elementi di DD, che però non sono tali da superare la logica DR. Bene, io credo che dobbiamo avere il coraggio di abbandonare totalmente la DR e sostituirla con la DD, che è l’unica alternativa politica valida, l’unica in grado di affrontare con successo le attuali sfide economiche, demografiche e ambientali, anche a livello mondiale. Il suo più importante limite è che pochi la conoscono. La DD è poco nota non solo perché i mass media non ne parlano, ma anche perché quei pochi che ne potrebbero parlare finiscono per lasciarsi sopraffare dalla falsa convinzione che il sistema politico DD non sia praticabile e lo abbandonano. A costoro dico che è finalmente giunto il momento di crederci. La DD non è solo l’unica vera forma di democrazia, non è solo la migliore forma di governo immaginabile, è anche un sistema politico possibile, tanto per le piccole comunità, quanto per i grandi Stati e perfino per il mondo intero. In che cosa consista esattamente questo modello e come potrebbe effettivamente operare è quello che mi propongo di illustrare nel prossimo capitolo.

9. Uno Stato DR: l’Italia

9.1. La democrazia nel Regno
In Italia i primi germi della DR penetrano, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, in Piemonte, dove, al momento dell’unificazione del Regno, è riconosciuto il diritto di voto ai cittadini maschi possidenti con almeno 25 anni di età e che abbiano versato almeno 40 lire annue di imposte dirette. Il suffragio ristretto su base censitaria mostra ben presto limiti vistosi, primo fra i quali il fatto di prestarsi alla compravendita dei voti e favorire lo strapotere della plutocrazia. “I deputati compravano gli elettori e il potere comprava i deputati, è stato detto” (CANFORA 2006: 100). Per contrastare l’eccessiva concentrazione del potere, si va diffondendo l’esigenza di un suffragio universale, ma gli oligarchi, temendo di dover subire quello che Nietzsche chiama il “dominio degli uomini inferiori” (1994: 470), rimangono fedeli al suffragio ristretto, che è “di per sé lo strumento canonico per realizzare il «sistema misto»: un po’ di democrazia e molto di oligarchia” (CANFORA 2006: 315), un compromesso fra la domanda di democrazia, che viene soprattutto dalla media-piccola borghesia, e la ferma determinazione dei ceti medio-alti di conservare le differenze di classe. Il popolo però non demorde e ottiene, prima l’allargamento del suffragio (nel 1882 il limite d’età viene abbassato a 21 anni, ma si esige che l’elettore sia alfabetizzato e lo provi davanti a un notaio), poi la sua estensione a tutti i cittadini di sesso maschile, anche non possidenti (nel 1912, ad opera di Giolitti), e infine il suo godimento universale, esteso anche alle donne (1946).

9.2. La democrazia nella Repubblica: tra proporzionale e maggioritario
Il modello di democrazia del dopoguerra è di tipo consociativo-proporzionale (tanti partiti, di per sé minoritari, si accordano per formare un governo di maggioranza) e non è sotto il diretto controllo del popolo, ma dei partiti, che si accordano, ad elezioni avvenute, per costituire il governo. “Il tratto basilare della scelta elettorale nelle democrazie consociative (che adottano necessariamente il sistema elettorale proporzionale) – scrive Sergio Fabbrini – è il seguente: il voto è per il partito prima che per il governo” (1997: 124). Ciò produce una certa instabilità dei governi, un accentuato pluripartitismo, ma anche la tendenza all’inefficienza e alla corruzione, ragion per cui, nel 1993, si ritiene di doverlo abbandonare a favore di un modello bipolare-maggioritario, che assegna i voti a due schieramenti (o partiti, o poli) precostituiti, in modo che uno dei due diventi «maggioranza» e vada al governo, mentre l’altro costituisca l’«opposizione». Almeno in teoria, i frutti del confronto fra i due schieramenti dovrebbero andare tutti a vantaggio degli elettori, che giocherebbero la parte del «terzo gode».
Allo scopo di evitare i limiti del sistema maggioritario puro, come la scarsa democraticità e la scarsa rappresentatività, che sono tali da configurare uno strapotere di una minoranza e l’esclusione della maggioranza, la legge del 1993 (chiamata Mattarellum dal nome del suo principale proponente, il democristiano Sergio Mattarella) prevede un sistema elettorale misto al 75% maggioritario, che mitiga gli effetti indesiderati del maggioritario puro, senza tuttavia eliminarli del tutto, e i risultati sono lì a testimoniarlo. Infatti, come nota Sabino Cassese, avviene che “La maggioranza degli elettori può essere diversa dalla maggioranza degli eletti in virtù di un artificio legale che attribuisce anche a una minoranza di elettori il potere di governare” (1995: 34). Insomma, anche il sistema elettorale misto presenta gli stessi limiti del maggioritario puro, talché “assicura a una minoranza elettorale una maggioranza legislativa; una minoranza di votanti conquista una maggioranza di seggi e tutti i poteri di decisione” (CASSESE 1995: 39). “Si sommano – prosegue Cassese – gli effetti di due paradossi, che, espressi in forma numerica, possono presentarsi così: 35=51, 51=100, dunque 35=100” (1995: 39). In altri termini, un terzo dell’elettorato potrebbe assumere la totalità del potere!
Il sistema proporzionale è stato parzialmente ripristinato dal governo Berlusconi (2005), che prevede soglie di sbarramento variabili e un premio di maggioranza alla coalizione che ottiene più voti a livello nazionale, almeno per quel che concerne la Camera. Per il Senato, invece, sono previsti premi di maggioranza regionali (GUARNIERI 2006: 107-9). Ciò però ha riproposto i problemi di instabilità, con i quali ha dovuto fare i conti il governo Prodi (2006-8).
Questo passare da un sistema all’altro rivela che nessun sistema elettorale è pienamente convincente. Infatti, il sistema proporzionale è più rappresentativo, ma tende all’instabilità e favorisce il fenomeno della corruzione, quello maggioritario ha il vantaggio di essere più stabile, ma lo svantaggio di non rappresentare adeguatamente le minoranze. I sistemi «misti» presentano vantaggi e limiti dell’uno e dell’altro, senza essere chiaramente superiori, né dell’uno, né dell’altro (CHIARAMONTE 2005: 237-46). Insomma, fino ad oggi, non si conosce una formula DR ottimale.

9.3. L’assetto politico centrale
Se ora vogliamo descrivere l’assetto politico del nostro paese, possiamo dire che l’Italia odierna è un tipico Stato-nazione a democrazia rappresentativa, ovvero una repubblica parlamentare con sistema bicamerale «perfetto» (cioè avente una Camera ed un Senato dotati di identici poteri) e un sistema elettorale di tipo misto. Il Presidente della repubblica, oltre a rappresentare l’unità nazionale, ha il potere di nominare il premier, di sciogliere anticipatamente le Camere, di promulgare le leggi votate dal parlamento e altro ancora. Il Parlamento, che è composto da 630 deputati e 315 senatori, esercita il potere legislativo. La Corte Costituzionale, che è composta da 15 giudici, nominati per un terzo dal Presidente della repubblica, per un terzo dal parlamento e per un terzo dalle supreme magistrature amministrative, giudica la costituzionalità delle leggi e la correttezza dei rapporti fra Stato e Regioni.

9.4. Gli Enti locali
La Costituzione riconosce ai cittadini il diritto di organizzarsi in partiti politici (art. 49) e in tre livelli di enti locali, Regioni, Province e Comuni (art. 114), ciascuno dei quali ha proprie funzioni, che vengono assolte da appositi organi deliberativi (Consigli) ed esecutivi (Giunte), e un rappresentante apicale (Presidente della Giunta regionale, Presidente della Giunta provinciale, Sindaco del comune). A partire dal 1999, i Presidenti regionali e provinciali vengono eletti direttamente dai cittadini locali e, pertanto, acquistano autorità propria. Inoltre, grazie alla riforma costituzionale del 2001, le Regioni sono investite di potestà legislativa e svolgono un ruolo sempre più importante, insieme a quello dei Comuni, mentre le Province rimangono un po’in ombra.
L’Italia è composta da 20 regioni, 103 province, 8100 comuni, 355 comunità montane, 10 città metropolitane, 146 unioni di comuni, 4000 consorzi, 800 aziende speciali e 300 società di capitali a partecipazione pubblica sociale (VESPERINI 2004: 5). In questa sede, non è il caso di approfondire la descrizione dell’organizzazione politica del nostro paese, almeno per quel che riguarda le Regioni e le Province. Credo invece che valga la pena di soffermarci brevemente sull’”istituzione più conosciuta (e più amata) dagli italiani” (VANDELLI 2000: 9), ossia il comune che, tra le istituzioni su menzionate, è quella più lontana dai vertici politici e più vicina ai cittadini e, come tale, più interessante in un discorso centrato sulla democrazia.

9.5. Il Comune
Il comune è un ente territoriale polivalente, le cui funzioni vanno dai piani di regolazione edilizia al sistema viario, dall’illuminazione ai parcheggi, dal trasporto ai rifiuti, dagli asili nido ai negozi, dalle farmacie alla distribuzione dell’acqua, dalle fognature ai cimiteri, e altro ancora, tanto da poter affermare che “tutta la nostra vita si svolge quotidianamente in modi e in un contesto profondamente segnati dalla presenza e dall’azione dei comuni” (VANDELLI 2000: 61). In un sistema veramente democratico ci si aspetterebbe che la politica orbitasse intorno al comune, che è la vera patria del cittadino, e invece non si può non constatare che essa orbita prevalentemente intorno alle istituzioni centrali (partiti, parlamento, ministeri), mentre ai comuni non è riconosciuto il ruolo di primo piano che essi meriterebbero.
Inoltre, la distribuzione dei comuni italiani non è pensata in funzione del cittadino e della democrazia, ma segue altre logiche. Infatti, un comune troppo piccolo non offre al cittadino sufficienti stimoli per la sua formazione personale, mentre un comune troppo grande è ridondante, va al di là degli effettivi bisogni della persona, non è a misura d’uomo, tanto che deve necessariamente frammentarsi in tanti sobborghi, che sono diversi per composizione sociale e per ricchezza, oltre che mal definiti. I comuni più adatti alla promozione dell’individuo e alla sua partecipazione democratica sono quelli compresi fra 5 e 15 mila abitanti, ma essi costituiscono una minoranza nel nostro paese e ospitano solo il 23% della popolazione totale. La maggior parte dei comuni (circa 4700 su 8100) hanno meno di 3000 abitanti, mentre la maggior parte della popolazione (57%) è concentrata nei 640 comuni con oltre 15 mila abitanti (in RUFFINI 2000: 78-9). Ciò non favorisce l’affermazione della democrazia.
La DD è ostacolata anche dalla legislazione vigente. Infatti, anche se in teoria, grazie alla legge 142 del ‘90, il comune potrebbe godere di una relativa autonomia e potrebbe avvalersi di forme di autogoverno (in particolare, i referendum, che non sono soltanto consultivi, ma anche decisionali, abrogativi, sospensivi, approvativi), in realtà, essendo inserito in un “sistema basato sul dominio assoluto dei partiti” (VANDELLI 2000: 39), esso è amministrato dai rappresentanti dei cittadini, che sono sotto il controllo dei partiti e quasi mai ricorrono a forme di DD. Piuttosto che essere le agorà dei cittadini, i nostri comuni sono campi di battaglia dei partiti, strutturati più secondo logiche di potere che per esigenze di democrazia, ed è per questo che essi vengono trascurati dalla politica. L’ultima batosta che hanno dovuto subire, l’abolizione dell’ICI, non ha fato altro che aggravare il loro stato di sofferenza, che è cronico, tant’è vero che ancora 14 anni fa Giulio Tremonti e Giuseppe Vitaletti avvertivano l’esigenza di “ridisegnare e riqualificare i Comuni” (2004: 69). “I piccoli comuni sono uno dei tanti paradossi italiani, costituiscono l’ossatura delle autonomie locali, hanno funzioni amministrative importanti, sono cruciali per il processo di decentramento amministrativo, ma non sono quasi mai oggetto di organiche politiche di sviluppo” (RUFFINI 2000: 13).
Come sono organizzati i comuni? La legge 81 del ‘93 prevede l’elezione diretta del Sindaco (al candidato eletto viene assegnato il 60% dei seggi), ma per non più di due mandati. Il sindaco, che, proprio a causa dell’elezione diretta, costituisce “la figura dotata del grado più elevato di legittimazione e di rappresentatività” (VANDELLI 2000: 118), gode di importanti prerogative, come quella di nominare gli assessori, il segretario comunale, i responsabili degli uffici e dei servizi, e anche il vicesindaco. Sindaco e assessori formano la Giunta, alla quale compete il potere esecutivo. Nei comuni con oltre 15 mila abitanti, il Consiglio viene eletto congiuntamente al sindaco ed è separato dalla giunta. Esso è un organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo, approva statuti e regolamenti, piani regolatori e bilanci, convenzioni con altri enti locali, modalità di gestione dei servizi, ordinamento dei tributi, e altro ancora. La giunta avanza proposte al consiglio, del quale attua gli indirizzi generali e al quale riferisce annualmente sul proprio operato. Sindaco e consiglio costituiscono i due poli del potere politico comunale: il consiglio può votare la sfiducia del sindaco, facendolo decadere, mentre il sindaco può dimettersi, determinando lo scioglimento del consiglio e l’avvio ad elezioni anticipate per entrambi. Una figura nuova (e facoltativa) è quella del Direttore generale (o city manager), che viene assunto dall’esterno con contratto a tempo determinato e gli si affida la gestione amministrativa del comune.
La cosa che merita di essere maggiormente rimarcata, ai fini della democrazia, è la mancanza, nel comune, di aree di aggregazione, di luoghi pubblici attrezzati, dove i cittadini possano riunirsi e discutere l’ordine del giorno, ma anche deliberare insieme alla giunta, insomma, partecipare all’amministrazione della propria comunità. Manca l’agorà, manca la pubblica discussione, manca perciò anche la forza vitale del popolo e la voce del cittadino, il quale, per conseguenza, finisce per perdere la coscienza di questo suo diritto e si estranea dalla politica. Abituato com’è a svolgere il ruolo di Pinocchio, il cittadino rinuncia ad esprimersi, perché non sa cosa dire o cosa proporre, mentre, dal canto loro, i rappresentanti si guardano bene dal metterlo in condizione di imparare, per il timore di realizzare così un unico livello di cittadinanza e perdere i propri privilegi. Alla fine, quella che si determina e si consolida è una struttura gerarchico-piramidale, dove ciò che conta sono i nodi del potere, ossia i Comuni, le Province, le Regioni e il Governo Centrale, mentre il valore del Cittadino è solo di facciata.

9.6. Un’oligarchia camuffata
Nel suo complesso, l’attuale quadro della politica italiana è da ritenere preoccupante a causa dei numerosi e gravi malfunzionamenti che lo affliggono, ma anche delle non poche anomalie e contraddizioni che ne inficiano la serietà e la credibilità. Buona parte di questi malfunzionamenti è resa possibile da un sistema amministrativo e legale volutamente complesso e a volte contraddittorio, tale da consentire una facile fruizione solo a persone esperte, che di solito appartengono al ceto sociale medio-alto. Solo così si può spiegare perché, nel nostro paese, “il numero di leggi sembra essere assolutamente abnorme a quello delle altre democrazie” (DELLA PORTA, VANNUCCI 1999: 100). Non è mia intenzione di redigere un elenco completo di ciò che non va in Italia, perciò rimando il lettore curioso ai tanti libri-denuncia circolanti, come quelli di Salvi e Villone (2005), di Rizzo e Stella (2008), di Stella e Rizzo (2008) o dell’ex senatore Willer Bordon (2008). Mi limito soltanto ad una breve riflessione su un punto che è centrale nel presente libro, e cioè la democrazia.
Oggi, nel nostro paese la democrazia è minacciata e perfino oscurata da un sistema di partiti che sempre più sono dominati da singoli leader, così potenti da incarnare il partito medesimo e fare il bello e cattivo tempo. Secondo Willer Bordon, in Italia interi partiti si identificano con “singole personalità” finendo per configurare quella che viene abitualmente chiamata «partitocrazia senza partiti» (2008: 69). Quello che ne risulta è un sistema politico verticistico, in cui tutto ciò che conta è stabilito dall’alto, mentre il popolo, che in democrazia dovrebbe essere il protagonista principale, viene ridotto ad un ruolo affatto secondario. “Con l’attuale legge – nota Bordon, la vera campagna elettorale si svolge nelle settimane precedenti al suo inizio ufficiale, con la stesura e la presentazione dei simboli e delle liste collegate. Una volta che ti sei assicurato un posto nelle liste bloccate, specie nei partiti principali, potresti anche andare in vacanza. Perché non c’è campagna elettorale che conti: tu sei già, e sai già di esserlo, deputato o senatore” (2008: 70).
Così la democrazia si svuota di contenuti e si trasforma in una, chiamiamola così, «elitocrazia», dove le scelte importanti vengono fatte nel vertice della piramide sociale e dei partiti. Nell’elitocrazia il candidato è solo apparentemente eletto dal popolo; in realtà, è nominato dall’alto e la sua fonte di legittimazione “non è più il cittadino con il suo voto, ma il boss del partito a cui deve l’inserimento nelle liste bloccate, in posizione blindata” (BORDON 2008: 71). Questo abnorme potere di pochi leader di partito è certamente reso possibile da tutta una rete di connivenze e complicità da parte di molti esponenti dell’establishment sociale, burocratico, religioso ed economico del paese, che, insieme ai parlamentari, hanno da guadagnare in termini di privilegi, discrezionalità, clientelismo, favori, scambi, impunità, leggi ad personam. Alla fine, questa politica rischia di ridursi ad un “gioco di poltroncine, sistemazione di questo o quell’amico, di questo o quell’affare” (BORDON 2008: 167) e il rischio di «oligarchia» si fa concreto (ivi: 90).
Solo se partiamo da questa consapevolezza, ossia dall’esistenza di un’oligarchia di fatto, possiamo spiegarci il fenomeno dei cosiddetti «pianisti», ossia “quei senatori che, con un abile gioco di dita, votano, oltre che per sé, anche al posto dei colleghi assenti, utilizzandone la pulsantiera” (BORDON 2008: 107). Se questo malcostume viene spesso messo in relazione alla volontà di aggirare la legge e far sì che anche gli assenti possano beneficiare dalla diaria prevista per i parlamentari che svolgono con coscienza il proprio dovere, in realtà la tolleranza di questo pessimo costume basta a dimostrare l’oligarchicità del nostro sistema politico, per difenderci dalla quale è stato scritto l’articolo 64 della costituzione, il quale recita: “Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti”. In questo modo si intendeva far salvo, nel parlamento, quel principio maggioritario che, come abbiamo visto, è ampiamente disatteso dal nostro sistema elettorale. Ebbene, i pianisti hanno trovato il modo di estromettere questo principio democratico anche dal parlamento. Il tutto ad un costo non certamente da saldo. Secondo Salvi e Villone, infatti, il costo della politica (parlamento, governo, ministeri, partiti, giunte regionali, provinciali e comunali) può essere stimato in 3-4 miliardi di euro (2005: 55).

8. La Terza via

L’espressione «Terza via» non si riferisce ad un'unica e ben determinata teoria politica, ma comprende diverse proposte avanzate allo scopo di consentire il superamento di un sistema politico, quello DR, che è ritenuto obsoleto e incapace di affrontare con successo le sfide del mondo contemporaneo. In buona sostanza, la Terza via intende offrire un impianto democratico più equilibrato ed evoluto alle attuali democrazie. In questa sede, non è mia intenzione di esaminare tutte le Terze vie proposte dai diversi autori, ma più semplicemente mi limiterò a prendere in considerazione due proposte scelte a caso fra le più accreditate, che illustrerò unicamente a titolo di esempio. Sono le proposte avanzate da Hirst e da Giddens.

8.1. La Democrazia Associativa di Hirst
La Terza via di Hirst (1999), chiamata «Democrazia Associativa», “non si propone né di abolire il governo rappresentativo né di sostituire lo scambio di mercato con qualche altro meccanismo allocativo” (p. 49), ma semplicemente di integrare il sistema vigente, che lavorerebbe male perché troppo centralizzato e onnicompetente, con associazioni autogestite volontarie. In pratica, Hirst vuole conciliare e superare le due teorie politiche oggi prevalenti, che sono la socialdemocrazia e il capitalismo neoliberista, attraverso l’integrazione di cooperative senza scopo di lucro, cioè associazioni di tipo mutualistico e solidale, che dovrebbero gestire i principali servizi sociali. Il governo del paese resterebbe sempre di tipo DR, perché “le istituzioni del governo rappresentativo continuano a essere necessarie” (p. 128), tuttavia, si tratterebbe di un governo notevolmente decentrato e pluralista, il cui elemento fondamentale non è l’individuo, bensì l’associazione. A differenza della DD, la quale sostiene che lo Stato esiste in funzione degli individui, la Terza via di Hirst afferma che “lo Stato esiste per proteggere e servire le associazioni autogestite” (p. 106).

8.2. La Terza via di Giddens
Molto diversa è la Terza via di Giddens (2000), che è centrata sui seguenti punti:
1) La globalizzazione economica viene accettata come una realtà ineludibile, ma gli Stati-nazionali continuerebbero ad esistere, pur con confini più fluidi, quasi a formare una “nazione cosmopolita” (p. 128).
2) Governo e partiti politici conservano un ruolo insostituibile (p. 62).
3) Ciascun cittadino può mettere in luce le proprie potenzialità e viene ripagato secondo il merito, mentre i più deboli devono essere aiutati (p. 48-9).
4) Tutti gli individui sono chiamati alla partecipazione politica, ciascuno secondo le proprie capacità, e invitati a non appoggiarsi acriticamente su altri. “Non ci si può automaticamente fidare che gli esperti sappiano cosa è bene per noi, né che essi ci possano sempre fornire verità non ambigue; devono essere chiamati a giustificare le loro conclusioni e le loro politiche sottoponendole al minuzioso esame del pubblico” (p. 67).
5) La DR va bene, ma deve essere integrata con elementi di DD: “democrazia locale diretta, referendum elettronici, giurie di cittadini e altre possibilità. Questi non sostituiranno i normali meccanismi per eleggere i governi locali e quello centrale, ma potrebbero diventare un durevole complemento” (p. 80).
6) Decentramento e devoluzione vanno bene, ma devono essere praticati con molta prudenza (p. 82).
7) “La famiglia è un’istituzione fondamentale per la società civile”; bisogna perciò preservarla e “rendere più difficile il divorzio” (p. 91-2).
8) Il Welfare va bene, purché vi si ricorra con moderazione. Esso, infatti, “non dà abbastanza spazio alla libertà personale” (p. 112): meglio promuovere gli individui attraverso l’istruzione. “È necessario che i governi diano particolare importanza all’istruzione a vita, sviluppando programmi educativi che inizino nei primi anni della vita di un individuo e continuino anche fino a tarda età” (p. 122). “La linea guida è l’investimento nel capitale umano dovunque possibile, piuttosto che la garanzia diretta del sostentamento economico” (p. 116). Si parla di un welfare positivo, per indicare che, anziché «dare» al cittadino, come si fa con un bambino, è preferibile metterlo nelle condizioni di fare da sé. “Nella società del welfare positivo, il contratto tra individuo e stato muta, dal momento che l’autonomia e lo sviluppo del Sé – il mezzo per accrescere la responsabilità individuale – diventa l’obiettivo principale” (p. 125).
9) L’età fissa di pensionamento va abolita: “la vecchiaia non deve essere vista come un tempo di diritti senza responsabilità” (p. 118). Gli anziani devono rappresentare una risorsa per il paese, e non un problema.
La Terza Via di Giddens costituisce uno sforzo davvero notevole, che va in direzione di un superamento dei limiti degli attuali sistemi DR (vedi i punti 3, 4, 5, 8), ma tuttavia rimane saldamente legata ad una logica di tipo DR (vedi il punto 2). Che dire? Il modello di Giddens è una via di mezzo tra DR e DD, e questo è già tanto. Esso, pertanto, va giudicato favorevolmente, non come fine ultimo però, ma nella speranza che, prima o poi, si giunga al passo decisivo, che è quello di realizzare una DD matura.

7. Welfare State DR

Dal momento che la DR si fonda sul consenso degli elettori e sul suffragio universale (secondo il principio «una testa un voto»), ne consegue che nessun governo DR può ignorare del tutto i bisogni delle classi sociali più deboli, che sono proprio quelle più numerose e importanti ai fini elettorali e, infatti, non c’è un solo paese DR che non abbia in programma una qualche politica di Welfare State (o Stato assistenziale o Stato sociale o Stato del benessere), il cui effetto è la riduzione delle disuguaglianze sociali. “Lo stato sociale – scrive Atkinson – serve ad attenuare le differenze fra le opportunità offerte dall’esistenza, a raggiungere una maggiore equità nei rapporti fra generazioni, a correggere le disuguaglianze dovute alla razza, al genere o alle condizioni di salute. Più in generale, questi programmi sono intesi ad aiutare l’individuo a redistribuire il reddito nel suo ciclo di vita, ad assicurare contro eventi che causano perdite di reddito e a fornire un senso di sicurezza a tutti i cittadini” (2000: 5-6).

7.1. Il Welfare nella storia
Sebbene il termine Welfare State sia coniato in Inghilterra negli anni Trenta del XX secolo, la storia dello Stato del benessere comincia già nel XVI sec. “in connessione con lo sviluppo del primo capitalismo, degli Stati territoriali e della Riforma” (FLORA 1991: 501), anche se il terreno propizio ad una sua possibile attuazione si costituisce, sempre in Inghilterra, solo con la rivoluzione industriale. È tuttavia la Germania di Bismarck, sul finire del XIX sec., a muovere i primi passi concreti in tale direzione, introducendo l’obbligo di una tutela assicurativa contro infortuni, invalidità e vecchiaia a beneficio degli operai delle fabbriche. Dalla Germania le assicurazioni sociali si estendono ben presto negli altri paesi europei imponendosi sempre più come una necessità e divenendo la base e l’origine del moderno Stato del benessere, che interviene a tutela di quelli che sono ormai considerati diritti fondamentali di tutti i cittadini, come l’assistenza sanitaria, l’abitazione, l’istruzione primaria, l’occupazione e la previdenza.

7.2. Il Welfare oggi
Oggi il fenomeno di Welfare ha raggiunto dimensioni imponenti. Infatti, se, insieme ai pensionati, si considerano anche coloro che percepiscono sussidi di disoccupazione e di assistenza sociale e tutti i dipendenti pubblici (istruzione, sanità, ecc.), “risulterebbe che attualmente in molti paesi circa la metà degli aventi diritto al voto percepiscono il loro reddito dallo Stato del benessere”, così che, alla fine, “le società occidentali sono diventate società di lavoratori dipendenti” (FLORA 1991: 511). “Non c’è quindi da meravigliarsi se lo Stato del benessere possa contare ancora oggi su un vasto consenso e se lo smantellamento dei servizi sociali è rimasto relativamente limitato” (ivi).
Sotto questo aspetto, la DR ci appare come uno strano sistema di mercato, dove, in cambio di benefici economici e diritti, molti cittadini sono ben disposti a cedere col voto la propria sovranità ad altri e a rinunciare alla partecipazione politica. A peggiorare il quadro c’è che le politiche sociali comportano una spesa enorme da parte dello Stato, che rimane esposto al rischio di paurosi deficit del bilancio pubblico, il che pone continue sfide ai governi e li costringe a rincorrere un difficile equilibrio tra pressione fiscale e servizi sociali.
Oggi c’è chi plaude alla politica di Welfare e punta sulla più ampia tutela della dignità umana. “Questo Stato deve aiutare il cittadino a trovare il suo posto nella società e, anche in tempi di crisi, rendergli possibile una vita a misura della dignità umana” (RITTER 1996: 226). C’è però anche chi pensa l’esatto contrario. Sono i cittadini di fede liberale e liberista, i quali vogliono ridurre al minimo lo stato sociale, preferendo affidarsi a forme di assicurazione privata. Si delineano così due principali modelli di DR: l’uno, di «sinistra», orientato al sociale, l’altro, di «destra», orientato al mercato. Fra questi due poli, c’è qualcuno che propone una «Terza via».

6. Il Referendum in Italia

“In Italia, così come nelle democrazie in genere, l’istituto referendario non ha mai goduto di buona fama né tra la maggioranza dei politici e dei partiti né tra la maggioranza degli accademici” (ULERI 1994: 422) e oggi i più ritengono che si tratti di una pratica inutile, che pone il cittadino di fronte a quesiti su cui non ha competenza e che si presta a strumentalizzazioni demagogiche. Probabilmente, nel nostro paese il r. non sarebbe diventato una realtà se non ci fosse stato sul tappeto il dibattito sulla legge riguardante il divorzio, avviato dal ministro Fortuna nel 1965. Allorché, nel 1970, apparve chiaro che la legge sul divorzio sarebbe stata approvata, si pensò che, se si fosse consultato il popolo, questo l’avrebbe abrogata. Fu con questo spirito che il governo democristiano si affrettò a varare la legge n. 352 di attuazione del r. (25 maggio 1970). Intanto, il primo dicembre dello stesso anno, passava la legge n. 898 sul divorzio. A giugno dell’anno seguente, i movimenti cattolici raccoglievano oltre un milione e trecentomila firme e così il r. abrogativo della legge poteva svolgersi. Era il maggio del 1974. L’affluenza degli elettori fu altissima (l’87,7%) e il 59,3% disse «No» all’abrogazione della legge.
Da allora si sono svolte numerose consultazioni referendarie (1981, 1985, 1987, 1989, 1990, 1991, 1993, 1995, 1997, 1999, 2001, 2003 e 2005), non senza disappunto da parte di molti governanti, i quali hanno cercato di porvi un freno, sostenuti in ciò dalla Corte Costituzionale, che ha negato l’ammissibilità ad un gran numero di richieste popolari. Già alla fine degli anni Settanta, i radicali parlavano di «Corte Beretta» perché vedevano i “giudici costituzionali come plotone d’esecuzione dei referendum” (CHIMENTI 1999: 65). Sorprendentemente però, il più deciso appoggio antireferendario proviene dal popolo stesso che, in teoria, dovrebbe avere il massimo interesse a difendere il suo diritto. Sarà per noncuranza nei confronti dei temi trattati, sarà per semplice pigrizia o per sfiducia o per altro, fatto sta che, col passare degli anni, l’affluenza alle urne è calata e, dopo il 1995, la partecipazione si è attestata intorno al 30-32%, quindi ben al di sotto del quorum.

6.1. L’attuale tendenza: referendum nulli
Tra i r. nulli va ricordato quello del 1999, che registrò una partecipazione del 49,6% degli aventi il diritto, un soffio al di sotto del quorum. Insomma, oltre venti milioni di cittadini espressero la stessa opinione, ma la loro volontà non ebbe riscontro. Il penultimo r., che riguardava l’art. 18 dello statuto dei lavoratori e l’ubicazione degli elettrodotti, si è tenuto a giugno del 2003 facendo registrare la partecipazione di circa 11 milioni e settecentomila elettori, pari al 25,7% degli aventi diritto. Relativamente all’art. 18, hanno votato «Si» l’87,4% dei partecipanti, e precisamente 10.245.809 elettori, ma senza esito, dal momento che il r. non è risultato valido.
Qualcosa di simile è successo in occasione del r. sulla fecondazione assistita del 12-13 giugno 2005: anche in questo caso l’affluenza alle urne è stata del 25,9 con una percentuale dei «Si» di circa l’85% e, anche in questo caso, l’opinione dei votanti è stata annullata per mancato raggiungimento del quorum. La particolarità di quest’ultima consultazione è che, seppure con qualche importante eccezione, le massime cariche dello Stato si sono schierate a fianco della chiesa e hanno adottato una posizione astensionistica, che poi ha avuto successo, ma che c’induce a riflettere sullo stato di salute dell’istituto referendario e della democrazia nel nostro paese.
Il 21-22 giugno 2009 50.221.071 elettori sono stati chiamati a esprimere un voto su tre questioni concernenti la legge elettorale vigente: 1. Per la Camera, abrogare la possibilità di collegamento tra liste e l’attribuzione del premio di maggioranza ad una coalizione di liste. 2. Per il Senato, abrogare la possibilità di collegamento tra liste e l’attribuzione del premio di maggioranza ad una coalizione di liste. 3. Per la Camera, abrogare la possibilità per uno stesso candidato di presentare la propria candidatura in più di una circoscrizione. Anche questo r. ha avuto esito nullo, con i seguenti risultati sui tre questiti:
Votanti 11.708.247 (23,31%) - 11.706.803 (23,31%) - 11.973.196 (23,84%)
Favorevoli 8.051.259 (77,63%) - 8.048.547 (77,68%) - 9.489.791 (87,00%)
Contrari 2.320.087 (22,37%) - 2.312.734 (22,32%) - 1.417.819 (13,00%)
Schede bianche 967.306 (8,26%) - 971.552 (8,29%) - 754.213 (6,29%)
Schede nulle 369.099 (3,15%) - 373.294 (3,18%) - 310.672 (2,59%)
I r. nulli costituiscono non solo una perdita di tempo e di denaro, ma anche un’autoesclusione del popolo dai giochi che contano, una rinuncia alla partecipazione politica e una minaccia mortale per la democrazia. Ma per fortuna non tutti i r. sono stati nulli. Tra i r. validi merita di essere ricordato quello dell’aprile 1993, che chiamava i cittadini ad esprimersi a proposito del finanziamento pubblico dei partiti. L’esito fu clamoroso: oltre il 90 per cento dei votanti, ossia più di 31 milioni di elettori, si dichiararono contrari al finanziamento pubblico. La particolarità di questa consultazione referendaria è che i politici hanno trovato il modo di disattendere la volontà degli elettori, semplicemente sostituendo il termine «finanziamento» col termine «rimborso» e, con questo stratagemma, hanno continuato a finanziare i partiti con denaro pubblico, già a partire dalla legge 515 del dicembre 1993, per continuare negli anni seguenti in un crescendo di erogazioni (BORDON 2008: 80-3). Il messaggio è chiaro: il popolo può pensarla come crede, ma in Italia il potere sovrano è saldamente in mano di pochi leader di partito e spetta a loro il diritto di pronunciare l’ultima parola.

5. Democrazia referendaria

“La Costituzione giacobina dell’anno I prevedeva la possibilità di referendum approvativi su ogni legge partendo dalla concezione di Rousseau secondo cui «la sovranità non può essere rappresentata»” (BARBERA 1997: 17). Oggi però non tutti i governi DR praticano il r. e non tutti quelli che lo praticano lo fanno allo stesso modo. “La Svizzera è di gran lunga il paese che fa il più grande uso di consultazioni referendarie al mondo” (RANNEY 1994: 37); per la maggior parte si tratta di r. cantonali o comunali, mentre quelli federali sono una minoranza. Dopo la Svizzera, i paesi democratici dove si ricorre più frequentemente sono la California e l’Italia, seguiti da Australia, Nuova Zelanda e Francia, mentre altri paesi vi ricorrono in modo eccezionale (Olanda, Regno Unito, Belgio, Germania, Spagna, Canada, ecc.) o mai (Giappone, India, Israele, Stati Uniti).

5.1. A che cosa serve il referendum?
Il r. serve a dare ai cittadini la facoltà di prendere decisioni che ordinariamente spettano ad organi di potere appositamente istituiti, come approvare o respingere un governo (per es. il r. istituzionale del 1946, che ha respinto la monarchia e ha fatto nascere la Repubblica) o una costituzione (r. costituzionale), proporre, revisionare o abrogare una legge (r. legislativo), avanzare una proposta da inserire nell’ordine del giorno (r. di iniziativa) o, anche più semplicemente, revocare una carica (r. sanzionatorio). A seconda dell’orbita in cui opera, il r. può essere nazionale, regionale, locale, sindacale, partitico, e via dicendo.

5.2. Il Referendum nella Costituzione
La nostra Costituzione prevede solo tre tipi di r.: abrogativo ad iniziativa popolare (art. 75), costituzionale (art. 138) e per la modificazione territoriale delle regioni (art. 132), di cui, solo il primo presenta i caratteri dell’istituto ordinario e di frequente impiego. In realtà, nelle intenzioni dei padri costituenti, il r. aveva un significato solo simbolico, una sorta di concessione dovuta al popolo, affinché fosse chiaro che la nascente Repubblica era una vera democrazia. Nessuno pensava infatti ad una sua applicazione pratica e, meno che mai, ordinaria e frequente, tanto è vero che, dopo il r. istituzionale del 1946 (volete la monarchia o la repubblica?), cui partecipò l’89,1% degli aventi diritto, per quasi trent’anni non si è sentito il bisogno di farvi ricorso.

5.3. Referendum e Democrazia
Il r. non è espressamente previsto né nelle monarchie, né nelle oligarchie, né nelle dittature e, pertanto, viene abitualmente considerato un istituto altamente e tipicamente democratico. Ma non è esattamente così, almeno per tre ragioni. La prima è che, pur non essendo previsto dalla legge, anche i regimi autocratici vi ricorrono “con il fine manifesto di mobilitare il consenso delle masse” (CACIAGLI, ULERI 1994: 18). La seconda ragione va ricercata nella modalità d’origine dell’istituto, che, come osserva Pier Vincenzo Uleri, è solo un prodotto storico della democrazia liberale, “frutto soprattutto dei conflitti tra i leader, le forze politiche ed i rispettivi progetti politico-istituzionali che si scontrano nella costruzione dei regimi liberali e democratici moderni” (2003: 114). La terza e più importante ragione della scarsa democraticità del r. è che non c’è alcuna garanzia che esso rispecchi fedelmente la reale volontà popolare, nemmeno quando si svolga in modo assolutamente conforme alle regole democratiche. Dal momento che va contro l’opinione comune, questo terzo punto richiede di essere dimostrato, ed è quello che mi accingo a fare.
Tra i limiti della democrazia referendaria, detta anche «del monosillabo», va annoverato quello di porre le questioni in modo troppo semplicistico, trascurando il fatto che le risposte politiche non sono quasi mai riducibili drasticamente a due. Si tratta, inoltre, di “un tipico sistema decisionale a «somma nulla»” (DI GIOVINE 2001: 89), dove la maggioranza vince e prende tutto, mentre la volontà della minoranza (che spesso è maggioranza) viene del tutto sacrificata. Così, anche se il r. esprimesse realmente la volontà della maggioranza, rimarrebbe sul campo il sacrificio del punto di vista della minoranza, che non è affatto facile da giustificare sotto il profilo del principio democratico. Infatti, “I referendum non guardano in faccia a nessuno e non possono che calpestare i diritti delle minoranze” (SARTORI 1993: 86).
C’è, infine, da considerare il fatto che un governo dispone di mezzi atti a vanificare il responso referendario, ad aggirarlo in qualche modo. Tutto ciò basta a spiegare la scarsa attrattiva che questo diritto esercita sull’elettorato. “Resta che le consultazioni referendarie sono un elemento non indispensabile della democrazia. Vi sono infatti democrazie che funzionano bene anche senza farvi ricorso” (CACIAGLI, ULERI 1994: 24).

5.3.1. Seguiamo l’iter referendario
Vediamo innanzitutto come si svolge l’iter referendario. Il punto di partenza è la raccolta di 500 mila firme di cittadini o la richiesta da parte di cinque Consigli regionali in merito alla questione che si vuole sottoporre al giudizio degli elettori. Fatto ciò, la Corte Costituzionale valuta la conformità di quella questione alle norme di legge e, se l’esito è positivo, si dà inizio alla fase operativa, che si concluderà col voto. Un r. viene considerato valido quando votano più del 50% degli aventi diritto e nullo in caso contrario.
Ora, immaginiamo che qualcuno abbia interesse a proporre un r., per esempio, sul federalismo. Chi può raccogliere le 500 mila firme necessarie? Non certo il cittadino comune: per farlo occorrono risorse adeguate e un apparato organizzativo all’altezza, che il cittadino comune non ha. Possono raccogliere le firme, dunque, solo i gruppi istituzionali (per es. un sindacato o un partito), le grandi aziende private (per es., un giornale) o qualche personaggio particolarmente facoltoso e influente (per es., Luca Cordero di Montezemolo), non certo i semplici cittadini. C’è un’altra questione: chi mi garantisce che i 500 mila firmatari conoscano bene l’oggetto per cui hanno firmato, nel nostro caso i vantaggi e gli svantaggi del federalismo? Molti potrebbero non sapere precisamente per che cosa hanno firmato o potrebbero aver firmato solo sulla fiducia nei confronti del promotore o perché attratti da messaggi propagandistici o per altre futili ragioni. Al limite, potrebbe accadere che un promotore privato compri le firme, offrendo, ad esempio, cento euro a ciascun sottoscrittore: gli basterebbero 50 milioni di euro, una cifra abbordabile per un grande imprenditore o una grande azienda! Occorre, dunque, fare una netta distinzione fra i promotori formali del r., che sono i 500 mila sottoscrittori, e i promotori veri, che, almeno in questa prima fese, sono gruppi organizzati e personaggi potenti: i r. esprimono la volontà di questi ultimi e non la volontà del popolo.
Poniamo che le firme necessarie siano state raccolte e sia stato superato l’esame della Corte Costituzionale. Passiamo ora alla terza tappa dell’iter, quella del voto, che è preceduta da una fase preparatoria, nella quale, solitamente, si costituiscono due fazioni (una favorevole, l’altra contraria), che si organizzano e danno il via ad una serie di iniziative (articoli sugli organi di stampa, conferenze, dibattiti, servizi radiofonici e televisivi, volantini, manifesti murari, propagande di ogni genere). Ancora una volta, è utile ribadirlo, protagonista non è il cittadino comune, che solitamente non dispone dei mezzi necessari per far sentire la propria voce, né ha la facoltà di accedere ai mass media e nemmeno è in grado di svolgere un ruolo significativo al fine di orientare l’opinione della gente. Anche in questa fase, i protagonisti del r. sono una minoranza elitaria.
Giunge infine il giorno del voto. È probabile che una metà degli elettori preferiscano andare al mare o ai monti, o si nascondano dietro qualche impegno, come per crearsi un alibi e sottrarsi impunemente all’insopportabile peso delle proprie responsabilità. Non avendo idee chiare e non sapendo da che parte stare, costoro scelgono di ignorare la consultazione. Poi potranno dire «io non c’ero», come per lavarsi le mani e liberarsi da qualsiasi senso di colpa. Poniamo che abbia votato il 50% + 1 degli aventi diritto. Verosimilmente, essi si sono fatta una qualche cultura sull’argomento in causa, leggendo giornali e riviste (di solito della propria corrente) e sviluppando le proprie idee alla scuola di opinionisti partigiani, oppure sotto l’influenza di discorsi di piazza, mentre pochissimi ne hanno una conoscenza tale da poter esprimere un’opinione personale veramente libera. È verosimile, dunque, che la maggior parte degli elettori non sappia che cosa sia di preciso il federalismo e voti sulla fiducia dei promotori oppure per semplice senso del dovere civico o in base a quanto ha sentito dire al bar o in TV, comunque in modo del tutto irresponsabile.
Ora, supponiamo che il 50% + 1 dei votanti (che corrisponde a circa il 26% degli aventi diritto al voto) si sia espresso a favore del federalismo. Si direbbe «il popolo vuole il federalismo» e si avvierebbero le procedure necessarie per attuare la «volontà popolare». In realtà, nel nostro caso, non è vero che il «popolo» ha chiesto il federalismo. Infatti, il 74% degli aventi diritto al voto o ha ignorato la consultazione o ha votato contro e solo il 26% ha votato a favore, molti dei quali senza avere idee chiare, indottrinati dai demagoghi o ipnotizzati dalla pubblicità. Se andiamo a vedere bene, scopriamo che, sempre nel nostro caso, il federalismo è passato grazie alla ferma volontà di non più del 5-10% degli elettori e grazie all’iniziativa di uno o pochissimi personaggi potenti. Così concepito, il r. è uno strumento non molto dissimile dalla forza bruta (vincono i più forti, non il popolo) e il sistema rimane più vicino all’oligarchia che alla democrazia.

5.4. Conclusioni
Alla luce di quanto detto, possiamo concludere che il vero obiettivo per una democrazia non è quello di avere l’istituto referendario, ma quello di avere cittadini capaci di usare la propria testa in modo autonomo e responsabile. Chiamiamoli pure «cittadini democratici». Se questi ci sono, allora un eventuale r. rientrerebbe fra le pratiche democratiche; se questi non ci sono, nessun r. potrà mai realizzare una democrazia. Finché non ci saranno sufficienti cittadini democratici, i r. rischiano di ridursi a nient’altro che a temibilissime armi nelle mani dei potenti, che si servono del «popolo» per legittimare il proprio potere. È una storia antica, che si ripete. Una volta il potere veniva legittimato da Dio, oggi dal Popolo. In entrambi i casi, Dio e Popolo non c’entrano un bel niente: essi fungono semplicemente da strumento della volontà dei potenti. La sostanza non cambia.

4. I partiti

Come ha correttamente osservato Kelsen, “la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici” (1995: 62). Detto in altri termini, “senza partiti politici […] la democrazia […] non è possibile” (LINZ 2006: 440-1). Anche il sistema politico italiano ruota intorno ai partiti.
Il partito politico moderno origina dalla diffusione dei fermenti rivoluzionari del XVIII secolo, che decretano il tramonto dei regimi autocratici e la trasformazione dei sudditi in cittadini, e si afferma nel momento in cui al ricco signore aristocratico, il cui potere poggia su un vasto seguito di servitori e clienti, subentra il politico di professione, il cui potere poggia sul consenso elettorale. Ciò accade per la prima volta negli Stati Uniti d’America sotto la presidenza Jackson (1829-37), nella prima metà dell’Ottocento. Il partito moderno è tipicamente composto da due ordini di cittadini: i leader e i seguaci. I primi sono politici di professione e vivono di politica. Essi fondano i partiti e, dopo essersi candidati a rappresentare il popolo, elaborano le strategie del consenso. I secondi invece si limitano a votare per questo o per quello, più o meno come fa il giocatore al casinò quando punta su un colore o su un numero sperando che sia quello vincente.

4.1. Che cos’è il Partito?
Ma che cosa sono esattamente i partiti? “Per partiti – scrive Weber – si debbono intendere le associazioni fondate su una adesione (formalmente) libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di un gruppo sociale, e ai propri militanti attivi possibilità (ideali o materiali) per il perseguimento di fini oggettivi o per il raggiungimento di vantaggi personali, o per entrambi gli scopi” (1999 I: 282). “In una democrazia parlamentare – nota Kelsen, il partito politico è uno strumento essenziale per la formazione della volontà pubblica” (1994: 299). Secondo Held, i partiti non sono altro che “macchine costruite al fine di vincere la lotta competitiva per il potere” (1997: 264). Anche Giuseppe Schiavone associa il p. al potere e parla di “gruppi in lotta per la conquista del potere” (2001: 280), e poiché il potere deriva dal consenso, si comprende bene perché i partiti mettono al primo posto la conquista dei voti piuttosto che un programma politico. E infatti, come opportunamente osserva Anthony Downs, “i partiti formulano proposte politiche per vincere le elezioni; non cercano di vincere le elezioni per realizzare proposte politiche” (1988: 60).
Concludo questa breve rassegna con le parole di Mauro Calise: “L’immagine dominante – e preoccupante – dei partiti è ancora quella di una oligarchia chiusa, asserragliata nelle stanze delle segreterie, depositaria di un potere decisionale che si tramanda per cooptazione interna” (2006: 99). In estrema sintesi, “ogni partito ha per vocazione quella di ottenere consensi al di fuori di sé, al fine di accedere al potere” (MASSARI 2004: 37). Come dire che i p. sono associazioni private inseparabili dall’idea di potere. Sono centri di potere privato, la cui principale funzione è quella di acquisire consenso da parte dei cittadini elettori. In ultima analisi, come osserva Max Weber, i partiti sono “in primo luogo organizzazioni costituite per la raccolta dei suffragi” (1999 I, p. 282) e la conseguente costituzione della società duale.
La forza contrattuale dei partiti dipende dal numero dei loro elettori, e questa è la ragione per la quale, come osserva Norberto Bobbio, essi sono “organizzati in primo luogo per procacciarsi i voti, per procurarsene il maggior numero possibile” (1991: 148). Nel suo complesso, possiamo immaginare la politica partitica come un’industria che produce voti e per la quale valgono le stesse regole del mercato. “I voti, come qualsiasi altra merce, si possono comprare” (BOBBIO, VIROLI 2001: 92). Ed ecco perché le campagne elettorali sono così dispendiose e perché è così difficile per un cittadino povero conquistare molti voti. Secondo Schumpeter, “i modi in cui i problemi e la volontà popolare in merito ad essi vengono manipolati corrispondono esattamente ai modi della pubblicità commerciale” (1994: 251). Quello che conta sono i voti conquistati e le leggi di parte che si riesce ad approvare nel corso della legislatura grazie a quei voti.
In fondo, è una questione di business, di affari, un gioco spietato, dove ciascuno pensa per sé e dove prevale una logica di forza, anche se non si tratta di una forza armata. Mancano obiettivi di giustizia ed equità sociale, manca l’attenzione per la singola persona, mancano i nobili ideali della DD, manca la voglia di rendere il mondo migliore. Lo scopo primario del candidato è quello di convincere i cittadini a votarlo, e perciò egli ricorre a lusinghe e promesse di ogni tipo e, anche se sa che poi non le potrà mantenere, si riserva di trovare poi il modo di giustificarsi o di lasciar credere che tutto sia andato come previsto e che egli sia meritevole di conferma. Il suo scopo, infatti, non è quello di far seguire i fatti alle parole, ma quello di convincere in qualche modo i cittadini a rieleggerlo. Da parte sua, chi si reca alle urne lo fa per sostenere un partito nei confronti del quale ritiene di avere affinità di intenti e di programmi e perché spera nelle promesse e nella buona fede dei leader e per tutta una serie di altre ragioni che l’elettore avrà cura di valutare (cf. DOWNS 1988: 89-83).

4.2. Perché servono i partiti?
Se adesso ci chiediamo perché sono necessari i partiti, possiamo trovare una chiara risposta nelle parole di Hans Kelsen: “In una democrazia parlamentare, l’individuo isolato ha ben poca influenza sulla creazione degli organi legislativi ed esecutivi. Per ottenere un’influenza, egli deve associarsi con altri che condividano le sue opinioni politiche. Nascono così i partiti politici” (1994: 299). È come ammettere che, se non ci fossero i partiti, l’individuo sarebbe privo di valore, oppure, che l’individuo acquista valore attraverso il partito. Secondo Schumpeter, “Partito e uomini politici di partito sono semplicemente la risposta all’incapacità della massa elettorale di agire di propria iniziativa” (1994: 269-70). Anche in questo caso, si ammette che il partito ha la sua ragion d’essere nella riconosciuta mancanza di valore degli individui, nemmeno se sono uniti in massa. Alla fine, il partito diventa l’atto attraverso il quale si sancisce l’incapacità radicale delle persone e del popolo di curare i propri interessi.
Dunque, i partiti sono necessari perché i cittadini sarebbero incapaci. E non si tratta di incapacità temporanea e contingente: i cittadini sarebbero incapaci per principio e irrimediabilmente. Non solo si stabilisce che il cittadino non è all’altezza di assumersi responsabilità di tipo politico, ma non gli si attribuisce nemmeno la capacità di esprimere un voto responsabile. “Sappiamo che gli elettori non dispongono delle conoscenze necessarie a un voto informato, e d’altra parte quelle disponibili superano le capacità individuali di valutarle e confrontarle, tenuto conto che essi generalmente non possono dedicare alla decisione di voto che una piccola parte del proprio tempo” (MARTELLI 1999: 181).
Siamo di fronte ad un giudizio categorico e definitivo, che degrada il cittadino comune ad un livello infantile perenne o ad un ruolo di marionetta. È la teoria elitista che, come sappiamo, è fondata sulla radicale sfiducia nel cittadino. È questa teoria che sta alla base del partitismo, ma, poiché dove manca la fiducia nel cittadino manca anche la democrazia, ne ricaviamo che i partiti sono la negazione della democrazia stessa. Tale è il senso della categorica affermazione di Massimo Fini: “I partiti non sono l’essenza della democrazia, ne sono la fine” (2004: 55).

4.3. Cosa fanno concretamente i partiti?
Sostanzialmente, i partiti cercano di selezionare candidati e “scegliere programmi in grado di conquistare i voti di una maggioranza di elettori” (MARTELLI 1999: 126). Il messaggio che il candidato di partito invia ad ogni potenziale elettore è di questo tono: più voti otterrò, più sarò forte e più facilmente potrò fare i tuoi interessi. Gli elettori ascoltano i candidati dei diversi partiti e giudicano. Devono capire da che parte stare. Alla fine, essi “votano per l’interesse personale” (MARTELLI 1999: 175). Ecco allora che la campagna elettorale diventa un gigantesco gioco di interessi, regolato da norme e procedure. Questo sistema potrebbe funzionare se i cittadini fossero avvezzi a usare la propria testa e fossero capaci di farlo in modo autonomo e responsabile, ma così non è. Di norma, i cittadini sono poco informati e votano più sulla spinta emotiva del momento o per interessi contingenti che pensando al bene comune e, per conseguenza, sono poco inclini a formare fronti compatti e solidali, il che concede ai leader un vantaggio incolmabile con conseguente creazione di un sistema politico sbilanciato a favore dei rappresentanti e di un sistema di potere di tipo oligarchico. Il sistema funziona così: i voti trasformano il candidato in rappresentante eletto e lo investono dell’autorità legislativa; il rappresentante eletto procura di emanare leggi che piacciano ai cittadini, affinché questi continuino a votarlo. In questo gioco d’interessi, che è la politica, chi ha più da guadagnare è l’eletto, se non altro perché, come vedremo, il diritto vigente ne fa un soggetto privilegiato, mentre chi ci perde di più è il cittadino comune.

4.4. Limiti di democraticità dei partiti
Secondo l’apparenza, i partiti sono espressi dai cittadini a garanzia dei propri interessi; in realtà, essi sono strutture verticistiche. “Mentre le dottrine classiche e neoclassiche immaginano che il consenso democratico fluisca, entro i circuiti organizzativi dei partiti, dalla base verso i vertici, i flussi della legittimazione politica seguono in realtà una direzione inversa” (ZOLO 1992: 151). Oggi, in seno ai partiti, “il potere dei leader è cresciuto in maniera esponenziale [… e] la fedeltà ai leader è probabilmente la più importante forza motrice” (Ginsborg 2004: 220). Ora, in quanto strutture verticistiche, i partiti rispondono più agli interessi degli eletti che a quelli degli elettori, come se non fossero gli eletti al servizio degli elettori, ma gli elettori al servizio degli eletti.
A parte il suffragio, i cittadini sono tagliati fuori dai giochi di potere dei partiti. Infatti, come osserva Oreste Massari, “gli elettori sono muti e passivi, esprimendosi soltanto nel momento elettorale. Da questo punto di vista, gli elettori stanno al di fuori della struttura partitica“ (2004: 37). Dopo avere abdicato, col voto, al proprio potere sovrano, il cittadino non può far altro che sperare nella buona sorte, ma senza alcuna concreta certezza di buon governo. Pensiamo ai disoccupati, ai sotto occupati, ai precari, ai percettori di pensioni minime, a chi non riesce a pagare il mutuo della casa o le bollette dei servizi, ma anche a chi perde il posto di lavoro per colpa non sua, come nel recente caso Alitalia (2008). Ci dicono che in Italia un venti per cento della popolazione versa in condizioni di povertà. È un esercito di cittadini sfortunati che farebbe i salti mortali pur di stare meglio e, infatti, molti di loro votano questo o quel partito nella speranza di migliorare il proprio stato. Ma invano: una quota di povertà è considerata fisiologica in tutti i paesi a regime DR e, pertanto, non meritevole di eccessive attenzioni. Questa situazione di squilibrio non cambierebbe nemmeno se si concedesse ai cittadini la facoltà di revocare la loro delega. Infatti, se, per esempio, i dipendenti dell’Alitalia che hanno perso il posto di lavoro potessero riprendersi il proprio voto, cosa cambierebbe per loro, ora che la frittata è fatta?
Ben diversa è la situazione se la osserviamo dal punto di vista degli eletti, ossia dei parlamentari, i quali, grazie ai voti, si assicurano, indipendentemente da come andranno le cose, una serie di privilegi di natura economica (indennità parlamentare, diaria per il soggiorno a Roma, rimborso spese, assegno di fine mandato, assegno vitalizio), che sono stabiliti da leggi emanate o conservate dagli stessi parlamentari. Ai privilegi economici bisogna aggiungere i vantaggi indiretti che derivano dalla posizione di potere dei parlamentari, che sta alla base dei fenomeni della corruzione e del nepotismo, oltre che della facoltà di emanare leggi ad personam finalizzate a tutelare interessi aziendali oppure a procurare un’immunità giudiziaria, come dimostra il caso di Berlusconi, il quale, tutte le volte che è indagato dalla giustizia, tira in ballo il fatto di godere di un vasto consenso popolare e dice sostanzialmente ai giudici: non potete procedere contro di me, non potete intralciare la mia azione di governo, perché è voluta da popolo e voi non potete andare contro il popolo sovrano.
Ma c’è un altro vantaggio per il rappresentante, che non è meno importante di quelli menzionati, il vantaggio di non essere vincolato da un mandato specifico e di godere di una quasi piena libertà decisionale, in assenza di un’accountability vera e propria. Il leader eletto non ha nessun obbligo di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, né deve rendere conto agli elettori del suo operato, ma rimane “padrone del proprio atteggiamento” (WEBER 1999: I, 291). “Il giudizio degli elettori è retrospettivo” (PASQUINO 1995: 57), può essere espresso cioè solo alla fine del mandato e, nella peggiore delle ipotesi, il candidato eletto rischia di non essere confermato alle successive elezioni. La legge prevede comunque condizioni di privilegio anche per chi sia rimasto in carica una sola legislatura. Così, di solito, avviene che anche i parlamentari più lavativi e opportunisti, alla fine del loro mandato, vengono comunque premiati. Io la chiamo «irresponsabilità».

4.5. Le ragioni di una crisi
Oggi c’è chi parla di “crisi del partito politico”, anche se rimane del tutto incerta “la cura da adottare o la soluzione da scegliere in una eventuale fase post-partitica” (BARTOLINI 1996: 531). Certamente una delle cause di questa crisi è da ricercare nella tendenza dei partiti nel degenerare in strutture verticistiche e di potere e ad estraniarsi dai bisogni dei cittadini. Il fenomeno era già noto a Robert Michels un secolo fa. Secondo lo studioso, infatti, tutti i partiti, al loro sorgere, dichiarano di ispirarsi ai più nobili ideali democratici, ma, alla fine, il potere si concentra inevitabilmente nelle mani di pochi leader. “Ogni organizzazione di partito – afferma Michels – rappresenta una potente oligarchia che poggia su piedi democratici” (in DELLA PORTA 2001: 85). È naturale che i cittadini si allontanino da strutture, che vedono sempre più estranee e dalle quali si vedono rappresentati sempre meno. E infatti, solo il 16% degli elettori italiani dichiarano di fidarsi dei partiti (DELLA PORTA 2001: 85).
Ma che cos’è questa crisi dei partiti se non il riflesso di una sfiducia ricambiata da parte dei cittadini? Una delle principali ragioni di questa sfiducia è certamente rappresentata dai limiti propri degli uomini politici, molti dei quali, non avendo esercitato alcun mestiere o professione, potrebbero avere una conoscenza inadeguata delle reali condizioni di vita dei loro elettori. Inoltre, la facilità con cui ricoprono “una pluralità di cariche eterogenee” induce a sospettare che lo facciano senza possedere adeguate competenze specifiche, dato che non si può essere competenti in tutto. Il fatto è che le carriere degli uomini politici sono decise dai dirigenti del partito e non sempre sulla base di capacità obiettive. Un’altra causa della sfiducia dei cittadini può essere individuata nel fatto che il parlamento non è rappresentativo del popolo, essendo formato prevalentemente da persone istruite e benestanti, mentre il popolo è formato prevalentemente da persone con titoli di studi e redditi modesti (PASQUINO 1999: 51-5).
A queste condizioni, è difficile che gli uomini politici possano pensare al bene comune, mentre è più facile che essi si servano del partito per i propri interessi e per le proprie carriere. E infatti, commenta Massimo Fini, “nessuna democrazia rappresentativa è una democrazia, ma un sistema di minoranze organizzate che prevalgono sulla maggioranza dei cittadini singolarmente presi, soffocandoli, limitandone gravemente la libertà e tenendoli in una condizione di minorità” (2004: 55).
Non bisogna poi dimenticare il riverbero che la logica partitica e clientelare dello Stato ha nel modo di funzionare di tutte le altre strutture del paese, come associazioni, organizzazioni, gruppi di potere e lobby, che spesso si avvantaggiano più ricercando concessioni politiche che attraverso un continuo miglioramento dei loro prodotti. Così facendo, essi curano sì i propri interessi, ma impoveriscono il paese. Infatti, “Quanto più i centri di decisione statali saranno dominati da lobbies che hanno un incentivo a favorire politiche rivolte alla redistribuzione del reddito a proprio favore, tanto più l’attività statale produrrà effetti negativi nei confronti delle performances economiche e, comunque, li produrrà in misura incomparabilmente più grande di quel che si avrebbe in uno Stato privo di lobbies” (OLSON 1996: 44).

4.6. Il costo dei partiti
E veniamo all’ultima questione: chi finanzia il costo dei partiti? I casi possibili sono due (o tre): o si lascia che siano gli stessi partiti a provvedere da sé medesimi, reperendo i fondi necessari nel privato, sotto forma di quote associative o di sponsorizzazioni da parte di lobby e gruppi interessati, oppure vengono finanziati dallo Stato (il terzo caso sarebbe un vario mix di questi due). In Italia, secondo Enrico Melchionda, “hanno fatto fallimento entrambi i modelli di finanziamento della politica oggi predominanti, tanto quello basato sul mercato e sulle donazioni private quanto quello basato sulle sovvenzioni pubbliche” (1997: 203-4), com’è dimostrato dallo scandalo di Tangentopoli. La corruzione politica non costituisce un tratto esclusivo del nostro paese, ma è presente, sia pure in forme e gradi diversi, anche in altre democrazie mature (DELLA PORTA, MÉNY, 1995). Insomma, da dovunque provenga, il denaro costituisce una tentazione pressoché irresistibile per i detentori del potere politico, e questo, a mio avviso, è da ritenere un ulteriore limite strutturale delle nostre democrazie partitiche.

4.7. Fine dei partiti?
La crisi dei p. è da reputare strutturale e senza possibilità di ritorno, perché il suo superamento presupporrebbe di rimettere al centro della scena politica la persona accreditata delle capacità di cogliere i propri reali interessi, accordare fiducia ai cittadini, ma, così facendo, crollerebbero i fondamenti ideologici del partito stesso, ossia l’inettitudine aprioristica dei cittadini, e, crollando il fondamento, crollerebbero anche i partiti. Ha ragione dunque Mauro Calise quando afferma che è finita l’era della partitocrazia, che bisogna pensare al dopo-partiti e che dobbiamo dare al nostro paese un nuovo assetto istituzionale, capace di dare più voce ai cittadini e di restituire la sovranità al popolo. “Ligi all’imperativo costituzionale che recita che ogni volere individuale è sovrano assoluto di se stesso, aspettiamo che la ragione e i numeri producano ciò che la nostra identità nazionale ci ha negato per il passato. Sulle ceneri della partitocrazia siamo pronti a festeggiare il trionfo dell’individuo ma pretendiamo che ciò sia a salvaguardia della sovranità popolare” (CALISE 1994: 146).

3. I modelli DR

Nel 2002 nel mondo sono stati contati ben 121 su 192 paesi a governo DR (BALDINI, PAPPALARDO 2004: VII), ma non tutti sono considerati paesi democratici nel vero senso della parola. Fabbrini (1997: 13), per esempio, indica solo «24 democrazie stabili» (e precisamente Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Israele, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Portogallo, Spagna, Stati Uniti, Svezia e Svizzera), che hanno in comune degli organi istituzionali, ossia un presidente, un organo di rappresentanza (il parlamento), un gruppo maggioritario che esprime un organo esecutivo (il governo) e un gruppo minoritario (l’opposizione).
Ciascun organo istituzionale è dotato di poteri specifici, ma con interpretazioni che cambiano da paese a paese. Il presidente può essere eletto dal parlamento o dal popolo e assumere diversi poteri: nel caso in cui egli abbia poteri autonomi rispetto al capo dell’esecutivo, si parla di governo parlamentare dualista o diarchia. Il potere esecutivo può essere affidato al parlamento stesso (governo parlamentare), al presidente (governo presidenziale), ad entrambi (governo misto) o ad un primo ministro. Se il capo del governo detiene il potere di nomina e di revoca dei ministri ed è ad essi gerarchicamente sovraordinato, si parla di premierato o cancellierato. Il premier può essere eletto dal parlamento o dal popolo.
Fra queste istituzioni, quella che dovrebbe caratterizzare meglio la DR è certamente il parlamento, non per niente il parlamentarismo è stato indicato da Kelsen come “l’unica forma reale possibile dell’idea di democrazia” (KELSEN 1995: 74). Il parlamento dovrebbe esercitare un potere (diretto o indiretto) di controllo su tutta la politica e costituisce il centro nevralgico e il simbolo del sistema DR, anche se talvolta è sopravanzato da altre figure istituzionali, come il governo, il presidente o il primo ministro.
A seconda che prevalga il governo o il parlamento, si parla di sistema a prevalenza governativa o a prevalenza parlamentare, mentre, a seconda che prevalga il presidente o il primo ministro, si distinguono tre tipi di governo presidenziale: a preminenza del primo ministro (Austria, Irlanda, Islanda), a preminenza del presidente (Francia, Russia, Corea del Sud), a diarchia effettiva (Portogallo e Finlandia). Il buon funzionamento di questi sistemi dipende dalla coincidenza della maggioranza che ha espresso il presidente con quella che ha espresso il premier. In ogni caso, il governo esercita un potere cruciale. “È il governo che detta l’ordine del giorno e i ritmi di lavoro del parlamento. È il governo che presenta i principali progetti di legge se non tutti, e che ne stabilisce i contenuti essenziali. È il governo che stabilisce ciò che in parlamento si approva o non si approva...” (BARBERA, FUSARO 1997: 83). Di norma, il governo risponde al parlamento (sistema parlamentare); se risponde al popolo si parla di sistema neoparlamentare.
Riguardo alla rappresentanza, si possono distinguere due modelli fondamentali di democrazia: uno maggioritario (detto anche Westminster, dal nome del palazzo in cui si riunisce il Parlamento della Gran Bretagna) e l’altro consensuale (o consociativo, o proporzionale). Il primo è orientato a dare al governo maggiore stabilità, a scapito della democraticità, il secondo rappresenta meglio i diversi gruppi popolari, ma tende ad essere meno stabile. I due modelli vengono interpretati in modi diversi dai singoli paesi, ma è difficile dire se vi siano sostanziali differenze qualitative fra l’uno e l’altro. L’unico dato che Lijphart dà per certo è che “il modello di democrazia maggioritaria si rivela particolarmente adatto alle società omogenee, ed in queste funziona meglio, mentre il modello consensuale è più adatto alle società plurali” (1988: 13).

3.1. I Sistemi maggioritari
Alla fine, tutti i sistemi maggioritari (Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti) si fondano “su una competizione bipolare con lo schieramento vincitore che va a formare il governo e lo schieramento sconfitto che va a fare l’opposizione” (PASQUINO 1995: 16), ma è possibile suddividerli in due tipi: a turno unico (o plurality) o a doppio turno (o majority). Il primo si distingue per la sua semplicità (ogni collegio elegge un solo rappresentante, che è colui che riceve più voti, anche se inferiori al 50%, e costui prende tutto il potere, mentre i perdenti perdono tutto) e perché dà origine a sistemi politici bipartitici e governi stabili. Il principale difetto del maggioritario, sia esso plurality o majority, è quello di essere poco democratico, ossia di non rispecchiare le reali volontà degli elettori. Per esempio, nelle elezioni del 2001 in Gran Bretagna è accaduto che i laburisti, avendo ottenuto il 40.7% dei consensi, hanno poi conquistato seggi come se avessero ricevuto il 62.7% di consensi (BALDINI, PAPPALARDO 2004: 20). Il majority è un po’ più complesso del plurality, ma più adatto nei paesi ove siano presenti molteplici forze politiche, nessuna delle quali in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei consensi. In questo caso, il primo turno serve per verificare il consenso delle diverse forze politiche in campo, il secondo turno (che può essere «aperto» a nuovi candidati o «chiuso») consente di giocare a carte scoperte, ossia con i partiti ben schierati su due fronti (bipolarismo).

3.2. I Sistemi proporzionali
Il sistema proporzionale prevale nelle società meno omogenee e plurali ed è particolarmente diffuso in Europa e nei paesi latino-americani. È caratterizzato da una maggiore rappresentatività, ma anche da una certa farraginosità, che è legata in parte all’“alto numero dei partiti con la conseguente frammentazione del Parlamento” (PASQUINO 1994: 223), in parte all’impiego di particolari formule matematiche, che lo rendono più complesso. L’esito della votazione cambia a seconda della formula adottata, rimanendo tuttavia molto più fedele alla volontà espressa degli elettori rispetto al maggioritario, con l’eccezione della Spagna, il cui sistema proporzionale è tale da avere effetti quasi maggioritari (BALDINI, PAPPALARDO 2004: 43). A fronte dalla maggiore democraticità del proporzionale, ci sono da considerare almeno due inconvenienti: il primo è che “le regole elettorali condizionano psicologicamente i voti e meccanicamente i seggi dei partiti, nonché il tipo di maggioranze al governo” (BALDINI, PAPPALARDO 2004: 124); il secondo inconveniente è che il sistema proporzionale favorisce i grandi partiti, tendendo a sovrarappresentarli (PIRETTI 1998: 102).

3.3. I Sistemi di tipo misto
Allo scopo di ridurre i limiti di questi due modelli fondamentali, si sono andati affermando negli ultimi decenni dei sistemi di tipo misto, intendendo per tali “quelli che mirano a combinare organicamente il principio maggioritario con il proporzionale” (CARDUCCI 1994: 181). A fronte del fatto che questi sistemi sono i più complessi in assoluto, non è chiaro se essi siano effettivamente migliori (CHIARAMONTE 2005). Secondo Maria Teresa Piretti, “il rischio che si corre è di costruire in realtà un sistema profondamente instabile, perché orientato solo alla logica «strumentale» del risultato parlamentare da produrre, e non alla logica di «legittimazione» propria dei sistemi rappresentativi” (1998: 137). Si tratterebbe, in altri termini, di sistemi in cui l’elemento tecnico-formale prevale sull’esigenza di democraticità sostanziale.

3.4. Alcuni sistemi politici DR
3.4.1. Stati Uniti. Il sistema elettorale statunitense è di tipo maggioritario, simile a quello inglese, ma con la differenza che in USA si vota prevalentemente per la persona anziché per il partito. Si tratta di un “governo presidenziale”, in cui i poteri esecutivo e legislativo sono separati, ma entrambi legittimati dal popolo. Il Parlamento, chiamato Congresso, viene eletto dai cittadini ed è nettamente separato dal governo. Detiene il potere legislativo e si compone di due parti: Camera e Senato. Nella Camera vengono eletti 435 deputati (numero fisso), eleggibili tra i cittadini che abbiano compiuto 25 anni di età, mentre il Senato è composto da due senatori per ogni Stato, eleggibili tra i cittadini che abbiano compiuto 30 anni di età. Il Presidente viene eletto da 538 Grandi Elettori, dura in carica 4 anni e può essere riletto una sola volta. Tutto il potere esecutivo è nelle sue mani. “Negli Stati Uniti, il potere esecutivo è affidato ad una sola persona, il Presidente della federazione. I ministri sono nominati dal Presidente e sono responsabili nei suoi confronti. Egli riunisce nelle sue mani i poteri di capo dello Stato e di capo del governo, risponde della propria azione non verso il potere legislativo, ma verso il popolo, che lo elegge e gli può confermare o revocare la propria fiducia ogni quattro anni” (LEVI 1997: 52). Il Presidente guida la politica estera del paese e comanda le forze armate, nomina i pubblici funzionari e i giudici della Corte Suprema. Il Congresso non può sfiduciarlo, ma solo metterlo in stato di accusa (impeachment). Il principale vantaggio di un siffatto governo è la stabilità. Gli svantaggi sono almeno due: il primo, che il popolo generalmente elegge il candidato che si sa presentare meglio e risulta più attraente, anche se non necessariamente ha le doti di un buon governante; il secondo è che, se il presidente e il parlamento non sono disposti a cooperare, il sistema si blocca.
3.4.2. Gran Bretagna. In estrema sintesi, il cosiddetto modello Westminster è un sistema politico bipartitico, a prevalenza del premier e maggioritario. Secondo Lijphart (1988: 15-7), esso è caratterizzato dai seguenti nove elementi: il governo è monopartito e a maggioranza risicata, mentre l’opposizione è costituita da un’ampia minoranza; i poteri esecutivo e legislativo sono uniti, con predominio del primo sul secondo; prevale il potere della Camera dei Comuni, che è eletta dal popolo, su quello della Camera dei Lords, che è composta da membri della nobiltà (bicameralismo asimmetrico); il sistema è bipartitico (il Partito Conservatore e il Partito Laburista); i due Partiti si somigliano molto (“la società britannica ha un alto grado di omogeneità e la dimensione socioeconomica è la sola in cui i maggiori partiti divergono in modo chiaro e netto”); il sistema elettorale è di tipo maggioritario, nel senso che “è eletto il candidato che ha la maggioranza assoluta dei voti o, nel caso in cui questa non venga raggiunta, quello che ha la minoranza più ampia”; il sistema di governo è unitario e centralizzato, i governi locali sono emanazioni del governo centrale; la Costituzione è non scritta e la sovranità appartiene al parlamento (sovranità nazionale); la democrazia è esclusivamente di tipo rappresentativo (non c’è posto per il referendum o l’iniziativa popolare).
3.4.3. Belgio. Il Belgio è una monarchia costituzionale ereditaria, in cui il governo è responsabile di fronte al parlamento. Nel 1993 il paese si è dato un assetto federale. Le due Camere sono elette su basi diverse e si dividono il potere in parti simmetriche; il sistema è multipartitico con rappresentanza delle minoranze; i partiti rispecchiano le forti differenze sociali (economiche, religiose, ecc.); i seggi parlamentari sono attribuiti ai partiti in proporzione ai voti che essi ricevono; la Costituzione è scritta e la sovranità appartiene al popolo.
3.4.5. Francia. L’attuale Quinta Repubblica francese è l’unica democrazia maggioritaria uninominale a doppio turno. Questo sistema, che è utilizzato ininterrottamente dal 1958, coniuga presidenzialismo e parlamentarismo. È caratterizzato da due figure di potere: il Presidente eletto dal popolo e il Primo Ministro eletto dal parlamento.
3.4.6. Spagna. L’attuale ordinamento politico spagnolo è succeduto al franchismo ed è una monarchia parlamentare. Si tratta di un sistema proporzionale, che premia, in maniera consistente, i due maggiori partiti, mentre i partiti minori vengono penalizzati. In questo modo, il partito di maggioranza ha potuto governare senza ricorrere a coalizioni.
3.4.7. Germania. Il sistema elettorale della Germania federale è un sistema proporzionale quasi puro, temperato soltanto dal limite del 5% per l’ingresso al Bundestag e dalla possibilità di ottenere seggi in soprannumero attraverso i collegi uninominali. Il cancelliere è eletto dal Bundestag e rappresenta il vertice del potere esecutivo.
3.4.7. Svizzera. Il sistema svizzero è simile a quello Usa, con la differenza che, anziché una persona, il presidente, al vertice dello Stato c’è un Direttorio eletto dal parlamento. Il Direttorio, o Consiglio federale, dura in carica 4 anni e non può essere sfiduciato, il che garantisce 4 anni di governo stabile. Un’altra differenza rispetto agli Usa è che in Svizzera si fa molto ricorso alle consultazioni referendarie (se ne sono tenute 395 tra il 1866 e il 1993).

3.5. Conclusioni
Da quanto sopra detto possiamo trarre le seguenti considerazioni conclusive. La prima è che nessun modello DR è esente da critiche: il maggioritario è antidemocratico, il proporzionale non garantisce la stabilità di governo, il misto è un tentativo di barcamenarsi tra l’incudine e il martello, un artificio di comodo, che non è né carne né pesce e non è in grado di conquistare il consenso unanime. Evidentemente, i limiti di questi modelli non sono tanto da ricercare nella loro complessità o nella loro scarsa democraticità, quanto nella loro mancanza di coerenza fra quello che promettono (piena rappresentanza di tutti gli interessi in campo) e quello che effettivamente offrono (un sistema poliarchico). E qui ci troviamo di fronte ad un limite strutturale impossibile da rimuovere con dei semplici aggiustamenti di tipo tecnico. I sistemi DR non potranno mai accontentare tutti, perché l’unico modo di farlo sarebbe quello di dar voce a ciascun cittadino o almeno garantire ad ogni persona l’effettivo godimento dei propri diritti democratici, ma questo la DR non lo vuole, perché significherebbe rinnegare se stessa.
La seconda considerazione è che, per poter mascherare la sua incoerenza, la DR ha bisogno di un sistema di regole molto articolato, un apparato burocratico intricato e più livelli di garanzie per il cittadino, in cui è difficile districarsi senza l’aiuto di giuristi, di amministrativisti e di esperti di ogni tipo. È appena il caso di dire che tutto ciò non serve a rendere effettivi i diritti dei cittadini, ma a creare l’illusione scenografica che lo Stato sta facendo il possibile per tutelare i diritti dei cittadini e che, se in molti casi ciò non avviene, se cioè continuano ad esserci cittadini di serie A e cittadini di serie B, non è certamente colpa dei governanti. Se le leggi fossero poche e chiare, se l’apparato burocratico fosse semplice e snello, se si adottassero sistemi procedurali automatici e trasparenti a garanzia dei diritti, se si adottasse l’uso esclusivo della moneta elettronica, se si facesse tutto questo sarebbe facile palesare l’impostura. Ma questo non si fa, non si vuole fare, perché, se lo si facesse, ci sarebbe il rischio di entrare nel mondo DD e di decretare la fine della DR. Il massimo che la DR può fare è offrire delle poliarchie, che sono sempre meglio delle monarchie, ma che comunque, come ha correttamente osservato Angelo Panebianco, non sono democrazie, “sono regimi politici oligarchici” (1997: 113).

2. Sopra e Sotto, Destra e Sinistra

A partire dalla fine del XVIII secolo, si sono affermati due nuovi fronti politici, che hanno preso il nome di Destra e Sinistra in riferimento alla posizione dei banchi dei parlamentari rispetto al seggio centrale del presidente ai tempi della rivoluzione francese (a sinistra i deputati rivoluzionari, a desta gli altri). Da questo momento, Destra e Sinistra hanno rappresentato i due modi prevalenti e alternativi di interpretare la società duale. La Destra è favorevole al mantenimento dello status quo, giustificandolo con la tradizione, e i suoi sostenitori prendono il nome di «conservatori». La Sinistra è orientata al cambiamento, giustificandolo con la necessità di migliorare le condizioni di vita della gente, e i suoi sostenitori prendono il nome di «innovatori» o «progressisti».

2.1. Elementi distintivi dei due fronti
Inizialmente ben demarcate, ciascuna entro la propria area di influenza, col passare del tempo, Destra e Sinistra sono andate compenetrandosi, e oggi presentano estese aree di sovrapposizione, che riguardano il pluralismo democratico, i diritti universali, la dignità della persona e altro, anche se è ancora possibile distinguerle con sufficiente chiarezza, almeno nelle loro ali più estreme ed è possibile delinearne alcuni tratti specifici.
Nel suo Manifesto dei conservatori, Giuseppe Prezzolini (1882-1982) illustra in 54 punti le differenze che corrono tra un conservatore e un progressista. Il conservatore è essenzialmente uno che ha qualcosa da difendere e conservare, che può essere una proprietà immobiliare o denaro, titoli onorifici o privilegi, status sociale o anche la cultura dei propri padri, la famiglia, la patria, e via dicendo (p. 14). Di solito, è legato ai valori dell’unità nazionale, alla storia, agli usi e costumi, alle istituzioni del proprio paese, e vuole una società basata sui valori della proprietà privata e della famiglia, della competizione e del lavoro, dell’istruzione e della libertà di informazione, della patria e della religione. Secondo il conservatore, l’eccessiva ricchezza o povertà vanno considerate un “pericolo sociale” (p. 53) e combattute; alla povertà bisogna provvedere “con la carità privata o pubblica” (p. 50), la religione non deve interferire con la politica. La società dev’essere anche statica e ordinata, deve muoversi cioè lentamente, badando a stare sempre ben ancorata al proprio passato, una società. Il progressista, invece, non è mai soddisfatto, vuole il cambiamento e la lotta, perché crede che tutto quanto esiste non è necessariamente buono, ma può e deve essere incessantemente sottoposto a critica e possibilmente migliorato. Cambiano però i modi di concepire il cambiamento e tutte le forme di governo realizzate dall’uomo sono lì a dimostrarlo.
Oggi, secondo una diffusa opinione comune, la Sinistra è più popolare, pensa più al sociale, punta a moderare le disuguaglianze sociali, promuove una politica di welfare a favore delle classi più svantaggiate, dei lavoratori salariati, dei bambini, delle donne, dei pensionati, teme le conseguenze dell’eccessiva concentrazione del potere nelle mani di pochi, vuole che lo Stato sia sempre presente e si adoperi per salvaguardare i diritti di tutti i cittadini; la Destra invece pone l’enfasi sui valori della tradizione e del liberalismo politico, sugli ideali patriottici e nazionali, difende la proprietà privata anche a costo di determinare concentrazioni di ricchezza, propugna la libertà individuale, lo Stato minimo e il libero mercato, difende i valori religiosi, la famiglia e la società autoritarie, è vicina alle posizioni elitiste.
Secondo Bobbio, l’elemento che più di ogni altro distingue la Destra dalla Sinistra è il diverso modo di porsi nei confronti dell’eguaglianza/diseguaglianza fra gli uomini. Entrambe, Destra e Sinistra, accettano l’idea che gli uomini non sono tutti uguali: lo sappiamo tutti che gli uomini non sono tutti uguali, o meglio che sono uguali solo in parte. “Gli uomini – scrive Bobbio – sono tra loro tanto eguali che diseguali” (2004a: 127). La vera differenza è che la Sinistra tende ad attribuire le disuguaglianze a fattori sociali e si prodiga per eliminarle il più possibile; la Destra invece è convinta che le disuguaglianze sono naturali e ineliminabili (BOBBIO 2004a: 129).
Comunque le si vogliano vedere, è un dato che né la Destra né la Sinistra riescono a superare il fenomeno della società duale e a produrre una società, in cui sia risolto tanto il problema della povertà quanto il problema della ricchezza, intendendo per quest’ultimo il plus di reddito che non serve a vivere meglio, ma a dominare altri uomini. Insomma, Destra e Sinistra non superano la logica della società duale e non creano un’unica immensa classe media, come, già tanto tempo fa, chiedeva Aristotele.

1. Un Mondo duale

“In ogni civiltà vi è una minoranza di spiriti nei quali si incarnano, più o meno pienamente, i valori propri di quella civiltà, e una massa inerte, che segue i suoi istinti, sensibile soltanto alle influenze collettive, che non riflette su nulla, o soltanto su qualche obiettivo personale immediato, e, a dire il vero, manifesta assai poco, o per nulla affatto, la personalità umana” (LECLERCQ 1965: 109). È il modello di società duale che si è affermato ovunque nel mondo e che viene riproposto anche nelle «civilissime» DR.
È da oltre cinquemila anni che l’uomo è abituato a vedere in ogni società un «sopra» e un «sotto», un livello superiore e uno inferiore, una minoranza dominante e una maggioranza dominata, e questo quadro è divenuto per lui così familiare da sembrargli un fatto normale, naturale, ineluttabile. Nell’antica Grecia però qualcuno ha cominciato a dubitare di questa «normalità» e ha cominciato a porsi domande sulle reali origini della distribuzione del potere politico. Da questo momento l’uomo ha cominciato a vedere la società duale come fatto problematico, su cui val la pena di indagare, e questo segna l’inizio del pensiero politico. Come sempre accade in casi simili, i pensatori si sono divisi: alcuni vedono nella società duale un simbolo di progresso e civiltà, altri ci vedono un simbolo di indebito dominio dell’uomo sull’uomo.
I sostenitori della società duale partono dal presupposto che, per loro natura, gli uomini non sono uguali, ma alcuni sono destinati a comandare, altri ad ubbidire. È bene dunque distinguerli in due categorie: i leader, cioè coloro che, o per proprie capacità o per nascita o per entrambe le cose, sono legittimamente destinati al comando, e i seguaci, cioè coloro che, per le stesse ragioni, sono destinati a lavori umili e servili. La società duale ha dimostrato una buona funzionalità ed un’eccellente longevità che dura ormai, quasi ininterrottamente, da circa cinquemila anni, anche se il prezzo pagato in termini di guerre e ingiustizie sociali è stato finora altissimo.
Da parte loro, gli oppositori di questo paradigma hanno registrato solo successi sporadici ed effimeri e non sono stati capaci di elaborare una teoria organica e convincente di un modello alternativo di società. Hanno invece prodotto la cosiddetta letteratura utopica e alcune proposte atte ad attenuare le più acute ingiustizie sociali, ma non tali da scalfire il solido impianto della società duale. Gli antichi ateniesi hanno provato a realizzare una DD elitaria e schiavista, che ha potuto sopravvivere per circa due secoli; i fratelli Gracchi hanno tentato la via delle riforme sociali, ma hanno pagato con la vita; Spartaco ha impugnato le armi, ma è stato sconfitto in battaglia; Gesù di Nazareth ha predicato in nome di Dio l’amore cristiano, ma è stato inchiodato su una croce. Nessuno è riuscito a disegnare in modo credibile i tratti di una società una e corale.
La società duale ha resistito a tutti gli attacchi e si è imposta come l’unica forma possibile di società complessa, evoluta e civile. L’unico spazio lasciato libero agli uomini di pensiero è stato quello di elaborare misure atte a smussare gli angoli più vivi delle ingiustizie sociali. Le stesse Rivoluzioni americana e francese hanno portato all’abolizione della schiavitù e alla proclamazione dei diritti del cittadino, ma non hanno messo in discussione la struttura duale della società. Lo stesso dicasi dei movimenti socialisti dell’Ottocento, che si sono adoperati per rendere meno dura la vita degli operai nelle fabbriche e per dare una certa dignità ai lavoratori, ma senza interferire sul modello duale.

1.1. La società duale DR
In uno Stato DR, di norma, chi detiene il potere economico esercita, direttamente o indirettamente, anche il potere politico, e finisce per diventare una classe privilegiata o, se si preferisce, una casta. “È banalmente noto che nelle società industriali avanzate, quando non è brutalmente spartito fra i partiti e gli amici loro, il potere è nelle mani di oligarchie. L’organizzazione della politica, così come è concepita in queste società, porta quasi fatalmente alla formazione di classi dirigenti ristrettissime, il cui ricambio è assicurato da una specie di perenne cooptazione ed espulsione gestita dall’interno dell’élite del potere; le elezioni sono delle grandi cerimonie laiche che, salvo eccezioni anche clamorose, incidono in misura minima sulla struttura della classe dominante. Si tratta di cerimonie di investitura che consentono di operare una scelta fra persone già scelte secondo modalità la cui analisi non mi compete in questo libro. Riguarda o riguarderebbe, semmai, gli specialisti, i sociologi e gli scienziati della politica. Molto spesso il controllo del potere consente un intreccio fra cosa pubblica, interessi privati e società politica tale da portare alle conseguenze più o meno negative o addirittura devastanti che in molti paesi stanno davanti ai nostri occhi. È cosa nota che i partiti, così come sono organizzati, finiscono per essere delle macchine infernali che si dilatano come i mostri di certi film di fantascienza penetrando ovunque e assumendo un controllo capillare e soffocante della società che rende utopico pensare alla felicità, o almeno alla serenità della gente” (ACQUAVIVA 1994: 92).
Nei paesi DR si possono distinguere agevolmente due livelli di cittadinanza: quello dei cittadini-rappresentanti, che sono accreditati delle qualità necessarie per assumersi responsabilità di governo, e quello dei cittadini-comuni, che si ritiene sprovvisti di quelle qualità; quello dei cittadini agiati, che sono liberi di impostare e seguire il proprio progetto di vita, e quello dei cittadini indigenti, che ogni giorno devono fare i salti mortali per far quadrare il bilancio familiare e ai quali non resta il tempo per occuparsi d’altro che di sopravvivere; cittadini di serie A e cittadini di serie B. In ogni Stato e in ogni città DR i due livelli sono ben riconoscibili e danno vita a due realtà profondamente diverse: nella cittadinanza di serie A c’è istruzione, cultura, conoscenza, organizzazione, abbondanza di beni, ostentazione di lusso; nella cittadinanza di serie B c’è ignoranza, disordine, ristrettezza e miseria. Secondo Nagel, “la stratificazione della società in classi è chiaramente un male: come potrebbe non essere un male il fatto che fin dalla nascita certe persone abbiano prospettive di vita radicalmente inferiori a quelle degli altri?” (1998: 39).
Questo quadro è particolarmente preoccupante se pensiamo che i paesi DR costituiscono la parte più avanzata e civile dell’umanità. Negli altri paesi è ancora peggio, nel senso che la dualità sociale è ancora più marcata e i cittadini di serie A sono meno numerosi. Il risultato è duplice: da una parte, non c’è al mondo città di alto profilo che non contenga un campionario di miseria, fatto di sottoalimentazione, mortalità infantile, vagabondaggio e disoccupazione; dall’altro lato, non c’è città di infimo livello dove, accanto all’indigenza delle masse, non sia possibile notare la magnificenza di una minoranza di persone che si muovono nella sfera dell’alta tecnologia e dell’alta moda, dei grandi affari e dell’alta finanza. Nella ricca Europa, ad esempio, si contano oltre 50 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà (ATKINSON 2000: 11) e che, pertanto, sono escluse dall’esercizio dei diritti e incapaci di organizzarsi e portare avanti una qualsiasi azione politica seria. E lo stesso dicasi degli altri Continenti.
Ora, se con una semplice operazione mentale, mettiamo insieme tutte le società duali del pianeta e le consideriamo come se fossero un’unica realtà, noteremo non uno, ma Due Mondi: il Primo Mondo è quello dei ricchi, il Secondo Mondo quello dei poveri.
Nel mondo duale sono facilmente riconoscibili un esiguo numero di persone così ricche da vivere ad un livello quasi sovrumano e una massa di persone così povere da vivere ad un livello quasi subumano. È stato calcolato che, nel 1999, le 225 persone più ricche della terra possedevano un patrimonio pari al reddito di un intero anno del 47% della popolazione più povera del pianeta e cioè di 2,8 miliardi di persone (BRAVO 2001: 269). Lo «straricco» non si accontenta di vivere agiatamente e senza affanni, ma, dopo aver conquistato il potere economico, vuole anche conquistare quello politico, così da non vedere sopra di sé altro che il cielo. Egli perciò non usa il suo denaro per le proprie necessità, ma piuttosto per dominare altri uomini, ossia per il potere. Secondo Friedman, questa concentrazione del potere nelle mani di pochi costituisce “la più grande minaccia alla libertà umana” (1981: 309). Lo «strapovero», infatti, deprivato di ogni dignità umana, non sa che farsene del diritto alla libertà, che pure la legge spesso gli riconosce, e, piuttosto, pensa a sbarcare il lunario alla meno peggio, arrabattandosi in ogni modo possibile. Di norma, il potenziale umano della massa dei poveri non riesce ad esprimersi, ed è davvero deplorevole che tolleriamo questo enorme spreco di risorse mentali, che potrebbero contribuire, anche in modo determinante, alla crescita culturale dell’umanità.
Nel mondo duale i pochi cittadini liberi condizionano e guidano dall’esterno le masse come se fossero bambini o marionette: è il cosiddetto «problema di Pinocchio». Ebbene, i fili che muovono gli individui non sono presenti solo nei regimi autoritari, ma sono ben visibili anche nei paesi a regime DR, e poco cambia se, al posto dei tiranni a muoverli siano i molteplici attori del capitalismo globale: in entrambi i casi il «problema di Pinocchio» resta irrisolto. Auspicare la liberazione dell’individuo dai fili che lo legano e la sua restituzione alla libertà implicherebbe liberare il mondo dalla povertà. Ma perché i ricchi, che sono i soli a disporre dei mezzi necessari allo scopo, dovrebbero muoversi in questa direzione?

1.2. Prospettive per il futuro
Oggi abbiamo bisogno di nuovi Tommaso Moro, che sappiano comprendere l’importanza di realizzare un mondo unito, guidato da norme di giustizia, anziché di forza, e interessato a valorizzare le singole persone. Abbiamo bisogno di ricchi che, anziché impiegare il loro denaro superfluo per dominare altri uomini, dedichino tutti i propri averi e tutto il proprio essere allo scopo di creare un modo migliore e più giusto, di cui essi saranno ricordati come gli ispiratori e gli artefici.
In realtà, non c’è una sola ragione per cui dovremmo aspettarci che i ricchi si spoglino dei loro averi e inizino a lottare per una più equa ripartizione delle risorse fra gli uomini. Ma non possiamo nemmeno escludere che qualche ricco illuminato riesca a cogliere nel fondo della propria coscienza i vantaggi di poter vivere in un mondo più giusto. In fondo, è solo una questione di coscienza, ed è lecito sperare che, prima o poi, qualche grande uomo dei nostri tempi possa volere farsi emulo di Tommaso Moro, l’importante uomo politico del Cinquecento che seppe immaginare e descrivere una società migliore rispetto a quella in cui egli si trovò a vivere.